Calcio e terremoto

Corruzione e distruzione: fenomeni periodici e devastanti

La differenza sta nel fatto che il tremare della terra è imprevedibile, mentre la corruzione nello sport ...

di Giuseppe del Ninno

Corruzione e distruzione: fenomeni periodici e devastanti

Pallone e devastazione, macerie ovunque

Trema la terra, in Italia, e trema il “pianeta calcio”, ancora una volta sconvolto da indagini e arresti per un giro di scommesse illecite e di partite truccate. Fenomeni, questi del terremoto e della corruzione calcistica, entrambi periodici, nel nostro paese, pur nella loro radicale ed evidente diversità.

Qualcuno potrebbe chiedersi: come è possibile mettere sullo stesso piano tragedie naturali che mordono a sangue la società, e comportamenti truffaldini nell’ambito di uno sport che è a metà gioco e a metà industria? Il fatto è che entrambi questi fenomeni, stavolta, si manifestano in una cornice di crisi generalizzata che, a rischio di enfasi, possiamo definire “epocale”; e allora, non è fuor di luogo azzardare qualche considerazione e qualche interpretazione che vadano, possibilmente, al di là delle contingenze e dei luoghi comuni.

Terremoto. Evento imprevedibile che, ad intervalli più o meno regolari, in paesi come il nostro, mortifica lo spirito faustiano dell’essere umano, esaltando tragicamente la potenza della Natura. Tuttavia, valutazioni di carattere politico, morale, amministrativo sono sempre doverose e, purtroppo, nel nostro caso, sono sempre ripetitive. Quali che siano i governi in carica, le figure degli amministratori locali, l’eterna burocrazia, i cicli economici – favorevoli o sfavorevoli, nazionali o internazionali – ci troviamo di fronte alle solite evidenze italiane: gestione disastrosa del territorio; furbizie criminali in materia di criteri di costruzione e dei relativi permessi; lassismo nei controlli; scarico di responsabilità; sinistri, diffusi conati di singoli e gruppi, volti ad approfittarsi della circostanza (provvidenze pubbliche non dovute, appalti più o meno “pilotati” e così via). Su questo, per di più, si sparge il sale di una polemica pseudo-politica, tanto per screditare l’avversario, magari fomentando il comprensibile scontento delle popolazioni terremotate.

Nei decenni, le sole note positive sono venute dalla risposta delle popolazioni e di qualche isolata figura di amministratore locale, come sembra essere il caso dell’Emilia di oggi e del Friuli di ieri. Cultura profonda? Caratteristiche etniche? Sta di fatto che spesso la religione laica del lavoro, l’abitudine a non piangersi addosso e a rimboccarsi le maniche senza attendere sussidi di Stato, l’intraprendenza coniugata con lo spirito di sacrificio hanno fatto la differenza.

Oggi, in più abbiamo alcune certezze, di varia natura: intanto, che la rigidità “europea” (ma potremmo dire: della Germania targata Merkel) dovrà flettersi, almeno di fronte a catastrofi del genere, sotto pena di un’ulteriore disaffezione verso le Istituzioni; poi, che l’Italia deve imparare a convivere con il terremoto, indipendentemente dalle “serie storiche”, in questo o quel distretto: tutti, insomma, siamo a rischio e dobbiamo trarne le conseguenze, soprattutto in materia di prevenzione e di priorità nella spesa pubblica e privata.

Calcio e corruzione. Anche in questo caso, siamo in presenza di un fenomeno ripetitivo, perfino nel coinvolgimento di protagonisti “di nome”. Forse, l’aspetto nuovo va ravvisato nella dimensione internazionale dell’illecito, nella riferibilità a gruppi criminali organizzati, nell’obiettivo, che non si limita al calcio “maggiore”.

 Il danno che ne deriva al pubblico – soprattutto dei più giovani, per i quali il calcio, come altri sport, costituisce una disciplina capace di forte attrazione ed emulazione – è evidente: nella nostra società, non esistono “isole felici”, dove in primo piano brillino la leale competizione, lo spirito di squadra, lo spirito di sacrificio (anche qui!), i risultati conquistati sul campo. Per non parlare della grande forza simbolica e rappresentativa che da sempre si sprigiona dal calcio: nata come disciplina “giocosa” per pochi, ben presto il calcio ha finito per incarnare una delle più forti manifestazioni dello “spirito di appartenenza”, ora al Campanile, ora alla Nazione. Spesso è stato definito “festa delle città” e/o metafora della guerra, e specialmente in Italia ha costituito, in occasione delle vittorie della Nazionale, uno dei momenti in cui si poteva agitare la propria bandiera e cantare l’inno nazionale, consentendo il superamento delle faide di parte.

La progressiva mercantilizzazione ha snaturato questa festa dello sport, ponendo il denaro, il successo effimero e a qualunque costo, la dipendenza dai poteri che controllano televisioni e pubblicità, al centro dell’attenzione degli operatori, che siano dirigenti, atleti, procuratori e quant’altri, gravitano intorno a quel mondo e ne traggono ricchezza. Così, gli esempi di fair play che ancora resistono – vuoi nella gestione delle singole società, vuoi nei comportamenti dei calciatori in campo -vengono oscurati non solo dai fatti criminosi, come quelli oggi all’esame dei magistrati, ma anche da gesti e dichiarazioni a dir poco inopportuni, come quelli attribuibili al portiere della Nazionale, non nuovo ad uscite deprecabili (per tutte, ricordiamo la sua dichiarazione circa un pallone che aveva varcato la linea della sua porta e che tutti avevano visto, tranne gli arbitri, e quella, più recente, concernente la comprensibilità “sportiva” di certi accordi tra squadre che decidono di non nuocersi reciprocamente).

Fine, insomma di ogni funzione pedagogica del calcio, sport nazionale, e riaffermazione che il denaro può giustificare tutto e che comunque la furbizia è un valore. Di fronte a una simile conclusione, non basterebbe certo la sospensione dei campionati.

E allora? Una volta di più, il Dio Mercato non può decidere tutto: non si può continuare a consentire il tenore di spesa di certi club – non solo in Italia, ovviamente – nel nome dello spettacolo e degli introiti televisivi e pubblicitari, non si può avallare la “dispar condicio” tra società che largheggiano, grazie a presidenti “scemi” e pseudo-mecenati, e società che, per scelta o per necessità, praticano una sana politica di bilancio; non si possono “viziare” atleti più o meno fortunati, giovani e irresponsabili, con ingaggi e benefit   incompatibili con le condizioni della società e del momento storico in cui vivono.

Il calcio – è stato detto – non è peggiore della società di cui è, in qualche modo, espressione. Eppure, nella società il calcio ha sempre voluto rappresentare un’isola, a partire dalla sua autonomia giurisdizionale – si pensi alla “clausola compromissoria” – fino alla “insensibilità” nei confronti di quella Tecnica – moviola, sensori in campo – che toglierebbe potere ad alcuni suoi “sacerdoti” (arbitri e organismi di settore). In queste cose, forse, sarebbe ora di cambiare, senza rinunciare “al gioco più bello del mondo”.

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