LA CUCINA DELLE SORELLE D'ITALIA

La Torta di Mazzini in memoria di Giuditta Bellerio Sidoli

Per le sue attività sovversive venne espulsa dai domini ducali e mandata in esilio a Marsiglia

di Marina Cepeda Fuentes

La Torta di Mazzini in memoria di Giuditta Bellerio Sidoli

Giuditta Bellerio Sidoli

 

Il  Padre della Patria per eccellenza, Giuseppe Mazzini, era ligure,  nato a Genova nel 1805  da genitori liguri: il padre Giacomo, medico, era di Chiavari e la madre, la severa Maria Drago, di Pegli, nella periferia genovese.

Come Garibaldi, anche Pippo, come lo chiamavano  in famiglie e anche gli amici più intimi, fu molto amato dalle donne che lo denominavano l’Apostolo, il Salvatore, ecc.

Anche  durante il lungo esilio a Londra, durato quasi quarant’anni con alcuni intervalli,  Mazzini fu corteggiato dalle sue seguaci: dalla vicina di casa Giovanna Welsh, con la quale Mazzini visitò i  punti più suggestivi  della città; e anche da Jane Carlyle, moglie di un suo amico che  indispettita per i suoi tradimenti abbandonerà  l’idee mazziniane, e soprattutto  dalla pittrice Emilia Ashurst, una donna infelicemente  sposata.

Nella casa del padre di Emilia, l’avvocato radicale William Hnery Ashurst, dove vivevano anche le altre figlie, Elisa, Carolina e Metilde, tutte sue  adoranti amiche,  Pippo si sentiva in famiglia: suonava la chitarra,  aiutava la signora Ashurst ad apparecchiare la tavola e  cucinava ogni tanto per loro qualche piatto genovese, specialmente i dolci di cui era ghiotto.

Maria Drago, preoccupata come ogni madre della sistemazione del figlio, gli  consigliava di sposare Emilia oppure una delle sorelle, anche perché Pippo ne  parlava spesso nelle sue lettere. Ma lui, con una certa durezza, le rispondeva sempre:  “Quanto a nozze, non è da pensarvi, né con lei né con altra: sono fidanzato all’Italia e basta!”.

Ma continuò a frequentare le sorelle Ashurst e a preparare per loro  i dolci, specialmente la torta alle mandorle  che aveva degustato durante l’esilio a Ginevra insieme all’unica donna che amò veramente: Giuditta Bellerio Sidoli, una valente patriota, entusiasta militante della Società Segreta delle “Giardiniere”, con la quale, mentre era esule in Svizzera e a Marsiglia, aveva fondato il giornale “La Giovane Italia” e da cui ebbe un figlio, di nome  Adolphe, deceduto in tenerissima  età.

Giuditta Bellerio Sidoli è stata una di quelle splendide eroine risorgimentali perseguitata e incarcerata da austriaci e borbonici,  oltre che una donna bella, affascinante e coltissima: l’unica, per l’appunto, sinceramente  amata da Giuseppe Mazzini con il quale collaborava politicamente e scambiava lettere appassionate: “...Io sono tuo per sempre, io non vivrò che per te: il mio cuore non batterà che per te; e quando esso batterà per la mia patria, sarà ancora per te, poiché in essa - sopra tutta la sua vasta superficie - io non amo e non amerò che te...”, le scriveva Pippo appena lei si allontanava per compiere qualche “mazziniana” missione.

Giuseppe Mazzini e Giuditta Bellerio Sidoli s’erano incontrati  per la prima volta nel 1832  a Marsiglia, nella casa al n° 57 di rue Féreol  dove lei risiedeva e dove ospitava  gli esuli italiani in fuga. Giuditta  vi era giunta per sfuggire alla repressione austriaca dopo il fallimento dell’insurrezione  di Reggio Emilia del 1831 alla quale aveva partecipato attivamente da quando  era rimasta vedova tre anni prima,  a soli 24 anni, dal patriota Giovanni Sidoli, un fervente addetto della setta modenese, infinitamente più fervida della Carboneria,  dei Sublimi Maestri Perfetti.

Ma la politica era già presente nella vita di  Giuditta Bellerio ancora prima del suo matrimonio e continuerà fino alla morte  partecipando a gran parte dei moti risorgimentali.

Ad  esempio, nel 1831, mentre il  Francesco IV si rifugiava a  Mantova, Giuditta, alla testa di un gruppo di patrioti, scese per le strade di Reggio inneggiando alla libertà: indossava la veste di Sublime Maestra Giardiniera in cui primeggiavano i  colori verde, bianco e rosso.  Gli stessi del drappo che lei stessa aveva cucito e che, quel 5 febbraio 1831,  sventolò coraggiosamente, incitando i suoi concittadini a tirar fuori bandiere e coccarde  tricolori: i colori che a Reggio Emilia, il  7 gennaio 1797, furono adoperati per la bandiera della Repubblica Cispadana.

Per le sue attività sovversive venne espulsa dai domini ducali e mandata in esilio a Marsiglia dove si erano rifugiati molti oppositori emiliani, fra cui Celeste Menotti,  fratello di Ciro; il letterato Giovanni Ruffini, che con  i fratelli Jacopo, Agostino e Ottavio fu tra i primi aderenti alla mazziniana “Giovane Italia” e tanti  altri.

Anche Mazzini, come la Bellerio Sidoli,  era giunto a Marsiglia per motivi politici: dopo l'arresto e il processo subito nel 1830 in Piemonte, a causa della sua affiliazione alla Carboneria, dovette rifugiarsi in Svizzera dove, non  potendo provare la sua colpevolezza,  la polizia sabauda lo aveva  lasciato libero costringendolo però all’esilio.

Ebbene, in quella casa marsigliese al n° 57 di rue Féreol, Giuditta e Pippo si amarono intensamente fin dal loro primo incontro, come avrebbe potuto accadere fra due  qualsiasi ventenni. Vi  nacque una lunga storia d’amore appassionata e tormentata,  nonché  un’intensa collaborazione politica:  lei, infatti, oltre che  l’amante, era diventata la sua fedele confidente facendo da tramite verso gli affiliati alla “Giovine Italia” e rimanendogli  vicina nei momenti dello sconforto, specialmente durante il  tentativo della spedizione in  Savoia, che d’altra parte si dimostrò un fallimento, e dovuto al quale  Mazzini fu costretto a stare rinchiuso in casa perché rischiava l’arresto.

E quando lei si allontanava fino in Svizzera, ai confini con l’Italia,  per portare i messaggi del Maestro ai giovani “Fratelli d’Italia”, lui le scriveva ancora: “Tu sai ch'io t'amo. Te l’ho manifestato nelle mie gioie, e, ancor più, nei miei dolori. Sei dunque sicura del mio amore, più ancora che del tuo. Ormai non mi restano che delle idee e una fonte di emozioni, e questa fonte è in te: ogni moto dell’anima mi viene da te; in te è il segreto della mia futura esistenza, dato ch’io debba averne una”.

E quando Giuditta  ritornava dai suoi spostamenti, insieme con libri, documenti e messaggi segreti, riportandogli  anche il suo amore incondizionato, Pippo la riceveva con la tavola apparecchiata e colma  con i suoi manicaretti. E per dessert non mancava mai una fetta della deliziosa “Torta di mandorle”, la cui ricetta gli aveva  insegnato una cuoca del luogo.

Di quella torta Mazzini  era talmente ghiotto che nel 1835  inviò a sua volta  la ricetta, con un’affettuosa lettera, alla madre Maria Drago: “…Eccovi la ricetta di quel dolce che vorrei faceste e provaste, perché a me piace assai…”. E poi la spiegava, passo a passo: “Alla meglio, perché di cose di cucina non m’intendo, ciò che mi dice una delle ragazze in cattivo francese. Pestate tre once di mandorle, altrettante di zucchero. Sbattete il succo d’un limone e due torli d’uovo, montate a neve gli albumi e mescolate il tutto. Unta di burro una tortiera, mettete sul fondo la  sfoglia, sulla quale verserete il miscuglio suddetto. Zuccherare e mettere in forno”.

Ecco dunque la ricetta “in volgare” della ormai cosiddetta “Torta di Mazzini”.

Ingredienti:

250 g di mandorle pelate

250 g  di zucchero

2 uova freschissime

1 limone

Burro

1 confezione di pasta sfoglia

50 g di zucchero a velo

Togliere la pellicina alle mandorle immergendole per qualche minuto in acqua bollente;dopo averle fatte asciugare bene, pestatele o tritatele finemente con lo zucchero; sbattere i tuorli con il succo del limone e unirli al miscuglio di mandorle e zucchero; infine aggiungere mescolando con attenzione gli albumi montati a neve.

Riempire con questo composto una tortiera foderata con la pasta sfoglia, spolverare di zucchero  e cuocere a forno moderato per 35-40 minuti.  Una volta tiepida cospargere di zucchero a velo.

Alle parole di Pippo Mazzini non resta altro d’aggiungere, se non  che questa semplice ma saporita torta ben si accompagna con un vino ligure dolce, dal sapore molto gradevole, dal nome che è tutto un programma: “Ûnn’a Coae”,  in genovese “una voglia”.

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