Editoriale

L'interventismo degli intellettuali nella nuova guerra della contemporaneità

Itaca è il tentativo, promosso da galantuomini di riportare la questione della politica in questo Paese sui binari del buon senso

Marco Cimmino

di Marco Cimmino

’era un tale che diceva che gli intellettuali, se, quando c’è una guerra, se ne stanno a casa a berciare i loro “Armiamoci e partite!”, perdono, ipso facto, il diritto di parlare alla gente.

 Insomma, i vigliacchetti vanno bene per disquisire in poltrona o per lustrare le argenterie al satrapo di turno, ma, in caso di frangenti calamitosi, sarebbe meglio si andassero a nascondere.

Il tale in questione, benchè decisamente ostile alle soluzioni militari, coerente con le sue idee, prese il fucile, si allacciò le mollettiere ed andò a beccarsi una palla dei tognini sulle groppe del Calvario. Che molti chiamano Podgora, ignorando lo sloveno. Era il giugno del 1915: la Grande Guerra era appena cominciata per gli Italiani, e qualcuno postulò che il tale era un bel fesso a farsi accoppare per quella sassonia riarsa.

Al che, un consistente novero di pensatori esclamò all’unisono: ah no, io non sono un fesso, e me ne resto a casa!

Non credo che sia cominciata lì la tradizione, secondo cui gli intellettuali italiani sono, per la maggioranza, dei gran fifoni, perché, ovviamente, questa fama risale di molto nei secoli: diciamo, comunque, che l’episodio ne diede efficace conferma. Al contempo, la scelta di quel tale, che si chiamava Renato Serra e, in tempo di pace, faceva il bibliotecario, mi pare si attagli benissimo a descrivere quel che penso io, benchè sia costretto ad ammettere che i rischi fisici per la mia persona risultino, quali che siano le mie scelte, alquanto inferiori a quelli di uno che nel 1915 se ne andava in giro sul Carso.

Perché la penso anch’io così: non amo particolarmente quegli intellettuali che se ne stanno in qualche buen retiro a limare terzine. Capisco che, se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare, però, andiamo: che un Gozzano, tisicuccio ed incline alla meditazione solitaria, se ne stia ad Agliè mentre gli altri fanno la guerra posso pure accettarlo, ma che degli intellettualoni grandi e grossi, buoni per il re come per la regina, mettano la cabeza sotto le coperte fa obbiettivamente un po’ ridere.

Anche oggi, mica solo ai tempi di Cecco Beppe. Perché una guerra c’è, e da guerra fredda si sta avviando a diventare di quelle vere: l’Italia è veramente spaccata da un conflitto interno, che rischia di rendere irreversibile il processo di incivilizzazione che si è innescato.

Sull’onda di una formidabile serie di scelte spaventosamente illogiche, oltre che profondamente offensive del senso di giustizia, la nostra società sta diventando ferocemente bipolare: i ricchi sono sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri. Ma fosse solo quello: i ladri e gli onesti, i colti e gli incolti, i fannulloni ed i lavoratori instancabili, i guelfi ed i ghibellini, ormai, sono categorie antropologiche della nostra vita quotidiana.

E si guardano in cagnesco, dagli spalti di opposite fortezze. Ci sono due italie, che non sono divise dall’Eridano, come cianciava uno che adesso rumina apoftegmi seduto su di una panchina al parco, ma dal carattere e dallo spirito delle genti.

Questo ha generato – questo, e non una legge elettorale o un sistema di partiti – la peggiocrazia: in questo sentimento antitetico delle cose, che ha fratturato l’unità di un popolo, si è incuneata la peggior politica che si sia vista in Italia.

Se, una volta, ci si comportava da manichei soltanto quando fossero in gioco delle idee guida, la Resistenza, la Religione, oggi ci si comporta da manichei sullo scontrino fiscale, sul costo della benzina e, va da sé, sulla politica.

Anche perché, e qui mi ricollego con la storiella del bibliotecario che va a combattere, gli intellettuali, in questo Paese, hanno abdicato molto tempo fa da qualunque ruolo effettivamente politico: politico nel senso nobile di politiké, dato che, di politica politiquée, che si pronuncerà pure allo stesso modo, ma ce ne corre,  i cerbaconi della quarta Italia ne fanno anche troppa.

D’altra parte, cosa si può pretendere? L’intellettuale del terzo millennio è un tipo un po’ fatto a suo modo: se ha, diciamo così, fortuna, scrive librozzi e se la passa discretamente, magari raccontando qualche boiata, ma, in definitiva, facendo il proprio mestiere. Se, invece, gli dice male, si consuma il preterito su sediacce dure come il sasso, ripetendo ba-ba e bi-bi ad una classe di somari sbadiglianti o va predicando in qualche università, retribuito, in un anno, quanto un calciatore, una danzerina o altra gente di strapazzo, in una settimana, un giorno o, in qualche caso, un’ora.

E si vorrebbe pure che un intellettuale, in un simile brodo di coltura, facesse la voce grossa? Ma non scherziamo: scondizolerà, invece, appena qualche fesso in grisaglia lo chiamerà appo sé, perché gli serve qualcuno che gli scriva i discorsi.

Di qui il problemino: in epoche un tantino più felici della nostra, almeno quanto a civiltà in senso stretto, i poeti, i pensatori, i saggisti erano oracoli cui ci si rivolgeva fiduciosi. Loro ne sanno, si diceva, quindi è a loro che è meglio affidare le pensate: chi meglio di un pensatore è capace di tirar fuori qualche idea? Nacque così il mecenatismo, che diede frutti molteplici e buoni, facendo della nostra penisola una specie di meraviglioso museo a cielo aperto. Oggidì, il pensatore è sovente una specie di lacchè, il cui compito non è quello di dirigere, con le proprie intuizioni e la propria sapienza, le scelte dei potenti, quanto, semmai, quello di avvalorare col proprio prestigio le bischerate sesquipedali che i potenti riescono ad estrudere, all’indomani di un festino o di una comparsata.

Una specie di foglia di fico, se rendo l’idea. Per fortuna, qualcosa, in questa palude lutulenta, pare che si stia muovendo: non si dice un fiume che scorra libero, con acque chiare e fresche, ma, quantomeno un pochino di corrente, un filo di acqua pulita, una bava di brezza.

Da una parte c’è Gori, che non la pensa certo come me, ma che è una brava persona, vogliosa di apprendere da chi ne sappia più di lui, con lo spirito giusto: uno che mette a frutto le idee, anziché considerarle pericolosi prodotti della concorrenza. E lo dico con cognizione di causa, perché lo conosco da tutta una vita.

Dall’altra parte c’è Itaca: potrà non piacere, ma non vedo altro all’orizzonte. Certo, ci sono i soliti piangina, che ogni volta che qualcuno propone qualcosa, profetizzano catastrofi, fallimenti, naufragi. E ci sono anche quelli che snobbano ogni idea che non sia venuta a loro: quelli che vivono all’insegna del “O primi o niente!”.

Di costoro, obbiettivamente, un esercito che scenda in campagna non se ne fa nulla: rimangano pure a casina bella a consultare gli astri o a scrivere elzeviri rabbiosi. La gente normale, con normali studi, normali titoli e pubblicazioni, la gente che non ha mai usurpato nulla, non ha mai rubato nulla, non ha mai pietito nulla, è a Itaca che dovrebbe guardare. Non perché lo Ionio sia meglio del Tirreno: non voglio aprire nuove diatribe né fondare la Lega Est, chè già di quella Nord, come si dice a casa mia ghe n’è assé.

Itaca, perché mi pare il tentativo, promosso da galantuomini e da gente con le cartebolle al loro posto, di riportare la questione della politica in questo Paese sui binari del buon senso. Non hanno fallito le ideologie: hanno fallito gli uomini. Sono gli esempi che hanno fatto cilecca, mica le parole.

Chi, a chiacchiere e discorsi difende la cultura e, poi, la usa come carta igienica, chi blatera di correttezza ed onestà e si ingozza come un tacchino, chi parla di giustizia e, in realtà, si adopera perché l’ingiustizia domini ogni scampolo della nostra società, non solo non è credibile, ma è pernicioso. Questi uomini, che ci hanno condotto alla demolizione coatta di ognuno di quei valori in cui ci riconoscevamo, si sono dimostrati un virus: non dico che Itaca sia la cura, ma, certamente, può rappresentare un inizio, una terapia del dolore.

Va detto che, purtroppo, avvertitamente o inavvertitamente, molti di noi hanno contribuito alla resistibilissima ascesa di questi pagliacci: quando i miracolati di Tangentopoli, proiettati da quella panzana del partito degli onesti ad un inverosimile 15%, si sono trasformati in una grottesca classe dirigente della destra italiana, in molti li abbiamo sostenuti. Con pensieri, parole ed opere, ne abbiamo avallato le idiozie e la vanagloria: fa niente se in buona fede, ci siamo comunque sbagliati in maniera clamorosa.

Ciò non vuol dire che non possiamo invertire la marcia. Per questo motivo, soprattutto, torna di moda l’interventismo, magari a collo storto, del Serra e di chi, come lui, ha scelto di combattere, anziché mandarci i soliti contadini. Per questo e per molti altri motivi, io ritengo che Veneziani, Besana e tutti i promotori di Itaca abbiano fatto benissimo: abbiano avuto coraggio, in un momento in cui a molti tremano i polsi. E le chiappe.

Se non altro, proviamo a dire alla gente che non sono tutti degli analfabeti, degli inconsulti o dei babbuini ammaestrati: che esistono ancora delle persone che prima pensano e poi parlano. E, soprattutto, che dire che siamo tutti ladri, tutti corrotti, tutti colpevoli, fa il gioco di chi ladro, corrotto e colpevole lo è veramente: diciamolo bello forte che non siamo mica tutti così. E che, se una destra può continuare ad esistere, dev’essere una destra di persone dritte di schiena e lucide di testa. Non, come adesso, che il capo di vestiario che si lucida di più a quelle latitudini sono i pantaloni: all’altezza delle ginocchia.

Itaca non è un gerontocomio o un centro benessere: è la casa, dove dei vecchi amici si ritrovano e si riconoscono. Sarà anche fortunato un popolo che non ha più bisogno di eroi, ma a me basterebbe che fossimo un popolo che ha bisogno di uomini. Perché alla voce ominicchi e  quaquaraquà, mi sa che abbiamo già dato.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da pietro46 il 10/08/2012 18:35:36

    Su ITACA e commenti.Qualcuno potrebbe rispondere a Camillo Langone(Libero pag.11 del 18/7/12)che il titolo era per riunire prima la dx(i portatori d'acqua per l'org.ne già esistente) e successivamente sarebbe stato mandato il taxi per coloro che avrebbero preteso l'invito patinato.Quel centro per cui si lamenta di non essere stato invitato.A Adriano Scianca(casa pound)vorrei ricordare che Telemaco senza il ritorno di Ulisse avrebbe solo ridipinto le pareti per gentile concessione dei proci solo fino a quando Penelope...Vi siete fermati?Itaca riprende? o è solo agosto?

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