Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Polenta e baccalà
Fra i molti inni patriottici sorti durante il lungo periodo risorgimentale, forse il più celebre di tutti è “La bella Gigogin” scritto nel 1858 dal ventiseienne compositore milanese Paolo Giorza che s’ispirò ad alcuni canti popolari della tradizione musicale lombarda, veneta e piemontese, il cui ritornello “Daghela avanti un passo, delizia del mio core!” la fece diventare subito una canzone patriottica perché, in realtà, celava l’invito a Vittorio Emanuele II a dare un passo avanti per liberare il Regno Lombardo-Veneto dagli austriaci.
Il contenuto dunque è fortemente anti-austriaco, con un’esplicita esortazione iniziale alle armi: “Rataplàn, tambur io sento/ Che mi chiama alla bandiera/ O che gioia o che contento/ Io vado a guerreggiar”.
Ma anche nella seconda parte della canzone si celava un messaggio contro l’Austria, seppur velato dal racconto, apparentemente senza senso, che parla di una bella fanciulla che si ammala per non mangiar polenta: “La dìs, la dìs, la dìs che l'è malada,/per non, per non, per non mangiar polenta./Bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza,/lassala, lassala, lassala maridà”.
Insomma, per i cospiratori la Gigogin, diminutivo in piemontese di Teresina, una ragazza patriota che si vuole sia esistita realmente, era sinonimo dell'Italia malata per non poter mangiare il cibo tradizionale per eccellenza dei lombardi e dei veneti, la polenta. Occorreva dunque aver pazienza e attendere l’alleanza tra Vittorio Emanuele II e Napoleone III e poi marciare avanti: “Daghela avanti un passo”.
La tradizione vuole infatt, che a ispirare l’autore del canto sia stata una bella fanciulla, Teresina, il cui diminutivo in piemontese, Gigogin, voleva dire per i patrioti “Italia”. A chiamarla così fu il generale La Marmora quando il 22 marzo 1848, l’ultima delle Cinque Giornate di Milano, la bella Teresina, che si trovava nelle barricate di Porta Tosa arruolata come volontaria vivandiera, fu incaricata da Luciano Manara di consegnare un messaggio al generale.
Teresina si era conquistata la fiducia di tutti mentre in prima linea, a Goito, soccorreva e rifocillava le truppe: la sua fama raggiunse i paesini più piccoli della pianura lombarda e presto molti cominciarono a canticchiare con lei il ritornello di una vecchia canzone che incoraggiava i soldati ad avanzare, passo a passo, verso est dove si trovava l’oppressore: “Daghela avanti un passo”, si cantava in coro.
Dopo la sconfitta Teresina scomparve per sempre, al suo posto però è rimasta la canzone più popolare del Risorgimento italiano, “La bella Gigogin”.
Fu eseguita in pubblico per la prima volta la sera di San Silvestro, il 31 dicembre del 1858, al teatro Carcano di Milano, alla vigilia della seconda guerra che vedrà la prima unificazione italiana.
Molti, nella sala gremita, attendevano con impazienza che arrivasse la mezzanotte; nell’aria si respirava la voglia di libertà. Quando la Banda Civica, diretta dal maestro Gustavo Rossari, attaccò a suonare le note della canzone il pubblico capì subito il messaggio che si celava in quelle parole, apparentemente senza senso, che parlavano di una bella fanciulla “tutta inzipriada” che da quindici anni “la va a spass col sò spingìn”, e cioè “andava a spasso col moroso”, e che diceva di essere malata:
La dìs, la dìs, la dìs che l'è malada
Per non, per non, per non mangiar polenta
Bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza
Lassala, lassala, lassala maridà.
Al Carcano di Milano la banda dovette ripetere la canzone per ben otto volte, mentre la gente, incurante degli austriaci presenti, cantava a squarciagola “La bella Gigogìn” che presto fu sulla bocca di tutti in diverse versioni.
Da allora “La bella Gigogin” è diventata la canzone ufficiale del Corpo dei Bersaglieri e viene tuttora eseguita dai soldati durante le esercitazioni e i giuramenti, una sorta d’italica “Lili Marleen” dal ritmo molto più vivace.
Si potrebbe, perciò, assumere la Teresina, la bella Gigogin, come simbolo delle tante donne italiane che hanno combattuto anonimamente per la libertà, non solo durante il Risorgimento.
In ogni modo dopo la battaglia che unì la Lombardia al Regno di Sardegna, il Veneto rimase ancora in mano agli austriaci, ma poco a poco, passo a passo, nel 1866 anche la popolazione veneta poté di nuovo, come aveva fatto da secoli, mangiare la polenta con questa tradizionale ricetta.
RICETTA DELLA POLENTA E BACCALÀ ALLA VENETA
*Per 4 persone occorrono:
400 g di farina gialla a grana fine
800 g di stoccafisso o baccalà di buona qualità, ammollato almeno 48 ore prima
100 g di grana grattugiato
3/4 l di latte
1 grossa cipolla
1 gambo di sedano
2 acciughe salate
farina bianca
olio d'oliva
100 g di burro
prezzemolo
sale grosso
Spellare e asciugare bene il baccalà ammollato tagliandolo a pezzi che poi verranno leggermente infarinati e passati nel formaggio grattugiato. Preparare un trito con il sedano, il prezzemolo e la cipolla e lavare le acciughe per togliervi il sale.
Sciogliere in una teglia da forno quasi tutto il burro e aggiungervi un paio di cucchiate d'olio d'oliva extravergine. Adagiarvi i pezzi di baccalà, coprirli con il trito e pezzetti di acciuga tagliuzzata; poi mettere qualche fiocchetto di burro e coprire il tutto con il latte.
Cuocere in forno a fuoco basso coprendo la teglia con carta paglia o argentata forata qua e la. Se si asciuga troppo aggiungere altro latte: raramente occorre salare perché il baccalà è già salato e inoltre vi sono le acciughe e il formaggio.
Dopo circa due ore il baccalà sarà ridotto a una crema saporitissima che verrà deposta molto calda sulle fette di polenta cucinata nel modo tradizionale; e cioè possibilmente nel paiolo di rame e a forza “d'olio di gomito”.
Così preparato il baccalà viene lodato nelle osterie venete con filastrocche come questa:
Me piase el baccalà, sia mantecato
e sia in tecia consà con la sardela
el me piaxe con l'ogio ben desfato
e col late ridoto a una pastela.