Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
La locandina del film
Con la sua prima prova da regista Massimiliano Bruno aveva convinto un po’ tutti. Pubblico e critica si erano dati idealmente la mano per sottolineare la bontà di “Nessuno mi può giudicare”. Poi è arrivata la seconda opera, “Viva l’Italia”, da oggi nelle sale, è il giudizio di pubblico e critica rischia di tornare a separarsi. In attesa del responso del botteghino, il giudizio degli addetti ai lavori è stato molto tiepido, se non freddino. Al punto da creare più di qualche imbarazzo. Perché Bruno, pur avendo trovato un buon copione, almeno per tre quarti del film, ed un cast di tutto rispetto – da Michele Placido a Raul Bova, passando per Alessandro Gasman e Ambra Angiolini per finire con Rocco Papaleo, ancora una volta superlativo, e Maurizio Mattioli – si è fatto prendere la mano, sciupando quanto di buono fatto con un pistolotto finale affidato a Michele Placido.
Un monologo, quello affidato all’attore principale del film, un po’ troppo moralisteggiante e poco aderente alla realtà. Superfluo, insomma. Perché la storia c’è, e funziona anche.
Un leader di partito resta vittima di un “incidente” e inizia a dire solo la verità, mettendo a nudo i vizi privati – tanti, tantissimi – dell’italietta di oggi, e le pochissime, se non inesistenti, pubbliche virtù di un Paese ammalato di furbizia, raccomandazioni e ricatti.
A legare le varie porzioni del film la lettura, anzi la rilettura, della Costituzione, tradita nella maggioranza delle sue parti, al punto da farla sembrare un qualcosa di “ridicolo”. Un libro “ironico”.
Insomma, l’Italia di oggi. Così com’è. Peccato che nel finale Bruno decida di giocare la carta del sermone, della lezione morale in vista dell’appuntamento elettorale. Probabilmente il fatto di avere nel cast Michele Placido - deve averlo convinto ad alzare l’asticella, mettendo dentro Sandro Pertini e Aldo Moro, il compromesso storico e valle Giulia, con l’ennesima citazione degli scontri fra studenti e polizia, spruzzi di Pasolini e teatro Valle di Roma occupato.
Il monologo finale di Placido, infatti, vorrebbe essere una sorta di orazione civile a difesa della Costituzione all’interno della quale manca un articolo: il numero 140, ovvero il diritto alla verità.
Ma la verità di Bruno, su quale Italia stia vivendo e vedendo, è già contenuta in certe battute del film. Soprattutto in quelle affidate ai figli che rinfacciano al padre aiuti e raccomandazioni, senza le quali non avrebbero fatto niente. L’Italia dei troppo furbi e degli scaltri, delle bustarelle e degli “inciuci”, degli accordi sottobanco e della politica corrotta, dei terremoti e della sanità allo sfascio, delle famiglie usate come paravento, sono un dato acquisito ed è giusto raccontare questi tasselli di un puzzle impazzito come una maionese venuta male. Ma sermoneggiare, nella convinzione di colpirne uno per educarne cento, non serve. Rischia solo di infastidire lo spettatore. E Bruno questa volta, rischia davvero di essere rimandato a settembre.
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