28 ottobre 1922

Marcia su Roma: parata da operetta, colpo di stato o abile bluff?

Facta proclamò lo stato d'assedio prima della firma del re che lo fece dimettere con la famosa frase: «Bisogna che uno di noi si sacrifichi»

di Laerte Failli

Marcia su Roma: parata da operetta, colpo di stato o abile bluff?

Parata da operetta, colpo di stato o addirittura, come voleva Curzio Malaparte, abile  mossa del “catilinario” Mussolini  che porta a una sorta di  golpe in puro stile leninista-trotzkista? Il dibattito è tutt’ora aperto e forse non si concluderà ancora per molto tempo: chi punta il dito contro l’inazione e l’incapacità della classe dirigente liberale, dimenticando che comunque un piano di stato d’assedio era stato preparato e avrebbe anche potuto funzionare, se solo il re lo avesse firmato; chi dice che tutto sommato il re fece bene a impedire che le cose degenerassero e si arrivasse a un scontro armato o chi, come Renzo De Felice, ricorda come il pericolo dello stato d’assedio, che alleggiava nella notte tra il 27 e il 28 ottobre , fosse  “sventato soltanto dalla circostanza che Vittorio Emanuele III, in un primo momento  favorevole a firmare il relativo decreto sottopostogli da  Luigi  Facta, avesse improvvisamente fatto marcia indietro preoccupato forse dall’atteggiamento (notoriamente filofascista) del duca d’Aosta, ma ancora più dalla posizione dell’esercito”.[1]  Ai posteri (anche se chissà quali) l’ardua sentenza, è proprio il caso di dirlo.

Nell’estate del 1922, il gruppo politico più forte in parlamento erano i liberali giolittiani, che se non erano abbastanza forti  per formare un ministero potevano però impedire che lo facessero altri. I popolari di Don Sturzo avevano 107 seggi, 121 i socialisti e 16 il neonato (da appena un anno) partito comunista.  C’erano poi altri gruppi minori di varie provenienza e estrazioni. I fascisti erano appena 35.  Certo molti di più dell’unico seggio conquistato alle elezioni del 1919, ma comunque troppo pochi anche per potersi permettere di condizionare una maggioranza.

Ma se questa era la situazione in parlamento, ben diversa era quella del paese, dove i fascisti avevano acquistato un peso molto maggiore. Questo a  causa dello scontro con i socialisti, a cui buona parte dell’opinione pubblica  attribuiva l’iniziativa del clima di guerriglia civile che da circa tre anni e mezzo insanguinava l’Italia e chi li combatteva passava come il salvatore dell’ordine. Questo spiega, come ricorda tra gli altri Indro Montanelli (che certo, almeno dal dopoguerra in poi filofascista non fu, anche se in gioventù ebbe anche lui il suo …. peccatuccio nero) il successo del fascismo non solo tra i capitalisti e gli agrari, ma anche tra la piccola e media borghesia e persino tra alcune fette del proletariato: basti pensare che, in breve tempo, gli iscritti ai sindacati fascisti passarono da quattrocentomila a settecentomila.

Luigi Facta era, dal febbraio 1922, presidente del consiglio in un governo di coalizione il cui presidente avrebbe dovuto essere Giolitti (uno dei soli due uomini che Mussolini forse temeva; l’altro era D’Annunzio); ma sembra che un veto di Don Sturzo abbia spinto a ripiegare su quello che, secondo Montanelli (e non solo) era “il più scialbo e sbiadito dei giolittiani.”. Un esecutivo che tutto aveva fatto fuorché governare mentre il paese era in piena crisi, economica e di convivenza civile; già andato in crisi in luglio, fu ricostituito in agosto perché alla crisi non si era trovato sbocco.

Molti furono i fattori che spinsero Mussolini ad agire: il timore che Giolitti venisse richiamato al governo per sbloccare la situazione,  il preannunciato ritorno sulla scena di Gabriele d’Annunzio che aveva accettato di mettersi alla testa di una grande adunata di ex combattenti per celebrare proprio a Roma, il 4 novembre, l’anniversario della vittoria; una certo calo  della simpatie per il fascismo dovuto anche e soprattutto agli eccessi degli elementi più facinorosi. Ma anche, probabilmente, la consapevolezza che quel momento di stallo poteva offrire condizioni favorevoli che potevano poi non ripresentarsi più.

La dinamica dei fatti è nota: il 24 ottobre fu indetto un raduno di camicie nere a Napoli (circa 60.000).  Qui Mussolini tenne, al teatro san Carlo, un discorso che fu applaudito persino da Benedetto Croce, che avrebbe nel 1925 stilato il Manifesto degli intellettuali antifascisti.  La mobilitazione avrebbe dovuto avere luogo il 27:  il 28 una volta occupate le località chiave, sarebbe iniziata la marcia su Roma vera e propria. Ma nella notte tra il 27 e il 28 il re, dopo aver ricevuto i vertici militari che, pur rassicurandolo sulla fedeltà dell’esercito “avevano però sostenuto che sarebbe stato bene non metterlo alla prova” [2] decise di non firmare lo stato d’assedio, infuriandosi anzi con Facta quando seppe che il testo del proclama era stato inviato all’agenzia Stefani  prima della sua firma. “Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile” - avrebbe affermato Vittorio Emanuele, e rivolto a Facta: “E ora, bisogna che uno di noi si sacrifichi” Al presidente del consiglio non rimasero che le dimissioni immediate, dopo  uno sconsolato  “Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca” .

Intanto Il 27 ottobre  i Fascisti cominciano la marcia di avvicinamento, durante la quale  vengono occupati senza resistenza  uffici postali e telegrafici, di grande utilità per i collegamenti tra le varie colonne.  Furono occupate pure le stazioni ferroviarie, consentendo così  di "marciare" in treno finché le linee non vengono interrotte.  Fu così che, naufragato lo stato d’assedio,  dal 28 al 30 partì un gioco serrato per la formazione di un nuovo governo dopo le dimissioni di Facta: dall’ipotesi iniziale di un governo presieduto da Antonio Salandra con Mussolini in seconda posizione, si giunse al conferimento dell’incarico allo stesso Mussolini  la mattina del 30: “ Non ho  fatto quello che ho fatto per provocare la resurrezione di don Antonio Salandra” disse Mussolini. Il bello è che a questa soluzione avevano lavorato alcuni importanti gerarchi fascisti, come  Dino Grandi, Galeazzo Ciano e Cesare Maria de Vecchi.  Ma nel momento in cui lo stato d’assedio veniva revocato, una posizione di secondo piano non aveva più senso.   Il duce, che non si era mosso sino a quel momento da Milano, ricevette il 29 il telegramma di convocazione nella capitale a nome del re da parte del primo aiutante di campo generale Arturo Cittadini  e “marciò” (in treno!) lui pure su Roma.

E le camicie nere? Erano accampate nei dintorni della capitale e non attendevano che l’ordine di entrarvi, cosa che poterono fare solo il 30. Il 31 sfilarono sotto il Quirinale, dove il re li salutò dal balcone. Bluff o non bluff, lo scopo era stato comunque raggiunto.

La stampa di quei giorni presenta un panorama abbastanza variegato: ovviamente esulta il quotidiano fascista   Il popolo d’Italia  che il 29 ottobre titola  Lo stato che noi auspichiamo va traducendosi in fatto;  e nel sottotitolo: Esultante solidarietà dell’esercito regolare con la milizia fascista – Mirabile fusione di  tutte le forze nazionali.  Sul fronte opposto il comunista L’Ordine Nuovo  scrive (il 28) in sovra titolo  L’attuale crisi della borghesia italiana entra nella sua fase decisiva.  Se da un lato per l’articolista dell’Ordine Nuovo  la mobilitazione fascista  “ è una manovra e un  bluff …  e Mussolini dominerà i suoi  bellicosi seguaci magari con l’aiuto delle guardie regie” si dimostra poi singolarmente disinformato, o quantomeno poco accorto, ipotizzando una sinergia Mussolini – Giolitti.  Nel suo fondo Parola d’Ordine pregiudiziale  il giornale esorta poi  il proletariato “ a mantenere intatto e autonomo il suo inquadramento politico rappresentato dai sindacati, dal partito politico e dal fronte unico di tutte le organizzazioni proletarie”.  Per il Resto del Carlino  dello stesso giorno (sostanzialmente favorevole ai fascisti)  la soluzione migliore sarebbe proprio un governo Giolitti – Mussolini, anche se non manca di dichiarare che “ la terza soluzione, quella, diciamo così, più sensazionale e che già suscita consensi e simpatie larghissime … (sarebbe quella) di affidare il governo all’On Mussolini.” A tal riguardo, il giornale riporta l’opinione del segretario del partito fascista (nonché uno dei “quadrumviri della marcia su Roma” Michele Bianchi: “ Non vedo altra soluzione  che quella di un incarico all’on. Mussolini”.

Il Corriere della Sera  tiene una posizione relativamente ostile: del resto il giorno 28 i fascisti ne avevano bloccato l’uscita e nell’edizione del  30 si legge  “Usciamo pertanto, ma per assolvere il compito dell’informazione, non quello del giudizio sui fatti, che intendiamo riprendere solo quando il nuovo governo abbia la volontà prima, e l’autorità e la forza poi, di restituire alla stampa i suoi diritti e di mettere questi diritti al riparo da ogni pericolo di arbitrio e di violenza”. Poche righe prima, peraltro, nello stesso fondo si dava atto che “Sin dalla sera di sabato, l’on. Mussolini aveva avvertito il danno che arrecava al movimento stesso da  lui capeggiato la soppressione di questo foglio che è, ci sia lecito dirlo con legittimo orgoglio, decoro della vita pubblica italiana. Egli rendendo omaggio alla nostra dirittura e alla nostra indipendenza, ci ha restituito la nostra libertà piena e intera.”



[1] Renzo DE FELICE, Breve storia del Fascismo, Milano, Mondadori, 2000, p. 19.

[2] Vedi nota precedente.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da NewBalance547 il 15/11/2014 10:46:56

    Xs235New@163.com

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