Editoriale

Torniamo all'agricoltura? Forse sì

I dati ci raccontano di una straordinaria ripresa occupazionale nel settore

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

’ boom di assunzioni in agricoltura, settore che , malgrado la crisi  e forse proprio grazie a questa,  fa registrare il più elevato aumento nel numero di lavoratori dipendenti con un incremento record del 10,1 per cento, in netta controtendenza rispetto all'andamento generale. E' quanto emerge da una analisi della Coldiretti relativa al secondo trimestre del 2012.

"In agricoltura il lavoro c'è,  sia per chi vuole seriamente intraprendere con iniziative innovative, come dimostra l'aumento del 4,2 per cento nel numero di imprese individuali condotte da under 30 nel secondo trimestre dell'anno, sia anche per chi chiede possibilità di occupazione" - ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini,  sottolineando che "non si tratta di un fatto marginale, ma di una opportunità, per molti disoccupati, immigrati, donne e giovani, che è in grado di garantire valore economico, ambientale e di sicurezza alimentare all'intera società".

Oltre i numeri, in crescita, e le doverose sottolineature degli operatori di settori, c’è tuttavia anche un dato culturale e metapolitico del fenomeno che va rimarcato e che  non può sfuggire a chi è impegnato nella ricerca  di soluzioni non congiunturali, ma strutturali, alla crisi.

Partiamo da alcuni quesiti (tutt’altro che retorici).

Di fronte alla messa in discussione degli assetti economici e sociali d’impronta novecentesca (l’industrialismo, oggi globalizzato, insieme agli eccessi del potere finanziario) come non cogliere in una “ripresa” contadina una plausibile risposta? Di fronte all’ingovernabilità e ai costi eccessivi determinati dai grandi aggregati urbani, di fronte agli squilibri ambientali e all’impoverimento biologico del pianeta, perché non porre  (o almeno non considerare) l’opzione contadina, in ragione della sua “positività” e alternatività rispetto ad un modello in crisi ? E dunque perché  non considerarne e valutarne le molteplici valenze, senza complessi d’inferiorità, ma in un quadro “organico” di sviluppo e di integrazione sociale ?

Dietro l’apparente impoliticità rurale esiste, ben salda e chiara, una funzione politica, istituzionale, culturale del mondo contadino, in ragione della conservazione delle tradizioni e dell’anima più profonda dell’identità nazionale, con evidenti ricadute economiche e sociali.

Pensiamo all’attivazione di un processo di riequilibrio (che sia, nel contempo, spirituale e sociale, economico e spaziale) tra aree ed influenze urbane e non urbane, tra metropoli e campagne, all’integrazione tra produzione agricola ed industria di trasformazione, alla tutela delle tipicità,  autentica barriera contro l’invasione dall’estero di prodotti di bassa qualità.

E mettiamo in conto di costruire nelle aree rurali, recuperate all’abbandono, una nuova alleanza tra colture tradizionali e tecnologia, tra difesa dell’identità ed innovazione, innalzando il livello di vita di chi sovraintende e sovraintenderà a quelle aree, accorciando le filiere, migliorando servizi ed infrastrutture.

All’immagine di un mondo contadino sulla difensiva occorre allora sostituire una nuova volontà insieme culturale e politica, economica e sociale, dandogli uno spazio più ampio, una nuova rappresentanza, anche politica. Prenderne coscienza è un primo passo. Chi di quella “rappresentanza” vuole farsi carico, si faccia avanti.

                                                                                                                                               

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