Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Una scena dell'opera
Uno stupro molto applaudito, anche perché realizzato con tutti i crismi. The Rape of Lucrezia (erroneamente tradotto in alcune versioni italiane del testo Il Ratto di Lucrezia), opera in due atti del compositore inglese Benjamin Britten (1913 – 1976) a cui il Maggio Musicale Fiorentino ha voluto tributare un doveroso omaggio nel centenario della nascita, costituisce senza dubbio il secondo “centro” di una stagione operistica che, per quanto scarnificata e sacrificata, è davvero sempre in grado di regalare emozioni da palcoscenico internazionale.
Britten, compositore a lungo “snobbato” da certa critica, era convinto della possibilità dell’Opera di continuare a vivere anche nel Novecento, sapendosi certo adattare al nuovo contesto socio – culturale ma senza per questo doversi “snaturare”. Non esitò dunque a usare uno stile che poteva apparire “superato”, attirandosi così il disprezzo e la sufficienza da parte delle frange più intolleranti della “Avanguardia musicale” che gli sono costati un’ingiusta emarginazione da cui oggi sta, sia pure a fatica, riemergendo. Un esempio per tutti: Luigi Nono, musicista “di regime” se mai ce ne fu uno, si rifiutò di stringergli la mano a Dartington, nel 1959. Gesto che da parte di un “sovietico”(anche in senso politico) come Nono non può che tornare a sommo onore di Britten.
“In quest’ottica va considerato il linguaggio di The Rape of Lucretia, ancora legato al sistema tonale benché arricchito di inediti risvolti, e la forma operistica volutamente narrativa (che in questo caso assottiglia la trama rendendola essenziale per avvicinarsi alla discussione morale e filosofica), che si modella su un uso soggettivo e fantasioso delle forme chiuse tradizionali.”[1]
E non solo Musorgskij , Stravinskij e Berg; si fa anche il nome di Mozart per i modelli di Britten, e anzi secondo Hans Keller solo Il genio austriaco e quello britannico riuscirono a fondere perfettamente pensiero sinfonico e operistico; nel Rape, a tale riguardo, si possono ravvisare gli stessi valori “condivisi e letti in una chiave religiosa che aspira a valori universali di convivenza civile e pacifica, presenti nella Clemenza di Tito mozartiana. [2]”
Del resto, l’opera ebbe la sua prima rappresentazione il 12 luglio del 1946 (a Glyndeborne) e questo (erano tempi di austerity, ma allora non si sacrificava la cultura) contribuisce a spiegare l’organico “ridotto” che il compositore decise di adottare: prevede infatti solo dodici strumenti che però riproducono quasi tutta la varietà della tavolozza orchestrale (due violini, viola, violoncello, corno, oboe, arpa, percussioni etc.) e che il musicista seppe sfruttare nel migliore dei modi, creando continui effetti di “chiaroscuro” e di atmosfera. Inoltre, il momento storico che vedeva appena conclusa la grande tragedia del secondo conflitto mondiale fece sì che il compositore e il poeta Ronald Duncan, autore di un bellissimo libretto che nelle sue fonti spazia da Tito Livio a Shakespeare e a tanti altri testi, potessero innestare sull’antica leggenda della bella e sfortunata Lucrezia violata dall’arrogante Sesto Tarquinio una riflessione sulle atrocità delle dittature e sull’uso tirannico del potere politico.
L’edizione del maggio Musicale, che riprende quella eseguita sempre al teatro Goldoni nel 2001 per la regia di Daniele Abbado, ha reso splendidamente sia i valori musicali che il messaggio etico e morale dell’opera, tra l’altro profondamente cristiano al punto da menzionare più volte nel corso del dramma il sacrificio di Cristo come vero e ultimo “senso della vita”. Un solo appunto alla regia di Abbado, bellissima e suggestiva, con le armature romane del V secolo ricostruite con splendido fasto archeologico: Va bene “movimentare” la scena (sia pur contro le intenzioni dell’autore, come il regista stesso dichiara) anche con l’inserzione di un elemento “cinematografico” che crea un formidabile contrasto con l’antichità degli eventi della trama. Ma l’equazione, neppure troppo sottintesa, tra nazisti e etruschi lascia un po’ a desiderare e soprattutto si rivela terribilmente usurata, anche se l’opera è del 1946. Ma per il resto, la regia era perfettamente centrata, anche nei movimenti di scena, ieratici e solenni come quelli di una tragedia greca.
Eccellente la direzione d’orchestra di Jonathan Webb, che ha dato vita a una partitura ricca di chiaroscuri, di vuoti e di impennate, sottolineando egregiamente sia i momenti lirici, sia drammatici, sia concitati. Il “coro” è in quest’opera rappresentato da due soli personaggi (Male Chorus and Female Chorus), splendidamente interpretati, sia per vocalità che per ieraticità, da Gordon Gietz e Susannah Gianville.
Ottimo il Tarquinius del baritono sudafricano Jacques Imbrailo, con un declamato di grande espressività e chiarezza e una potenza vocale davvero degna di nota; Lucretia era il mezzosoprano Julianne Young , che ha ricoperto splendidamente il ruolo originariamente previsto per contralto, grazie a una voce capace di esprimere raffinate colorature liriche e ma anche efficaci slanci drammatici. Di buon livello anche gli altri interpreti che hanno contribuito a fare di questo spettacolo una straordinaria occasione per conoscere e apprezzare un grande compositore. Consigliabilissimo dunque affrettarsi per le repliche, che saranno sempre al Goldoni il 21,23,24 e 25 maggio, alle 20,30.
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