Editoriale

Fabiana accoltellata e bruciata viva dalla miserabile ideologia dei non-valori

Il giovane assassino è il prodotto di un Paese intossicato da un falso concetto di libertà e antichi retaggi

Andrea Di Consoli

di Andrea Di Consoli

i primo acchito, di fronte al male estremo, non ci si può che inginocchiare confusi, senza parole; solo dopo si possono invocare pene più aspre, maggiori certezze del diritto, una più profonda lettura dello sconquasso antropologico dell’Italia odierna.

Corigliano Calabro, come gran parte del Cosentino, non è mai stata terra di ‘ndrangheta, ma una silente violenza inesplosa la percorre e, insieme a essa, un continuo sottofondo di malessere sociale, di frustrazione, di collera. E’ una terra, questa, in bilico tra modernità e tradizione, ugualmente capace di eccellenze dell’ingegno e di rassegnate rese di fronte al degrado (si pensi, tanto per fare degli esempi, alle sparatorie, ai capannoni incendiati, allo sfruttamento della prostituzione, alle tendopoli di immigrati a Schiavonea).

Il diciassettenne coriglianese che ha bruciato viva, dopo averla cosparsa di benzina, la sua giovanissima fidanzatina Fabiana Luzzi (che, lo ricordiamo, non aveva nemmeno compiuti i sedici anni), ci dice qualcosa di molto serio sulla malattia di quest’Italia, ovvero sul mescolamento senza amalgama di vecchi “valori” ormai decontestualizzati come onore e potere maschile, e nuove acquisizioni della modernità quali libertà femminile, edonismo, liquidità identitaria e affettiva. Quando due faglie così diverse e così distanti finiscono col cozzare, a quel punto è inevitabile il terremoto, di cui l’omicidio di Fabiana è solo l’ennesimo, tragico epifenomeno.

Le colpe sono sempre individuali, ma nessun delitto è davvero privo delle stimmate del tempo, cioè dei piccoli e grandi sommovimenti della contemporaneità. Altrimenti dovremmo accettare la lettura sommaria e superficiale di quanti dicono, senza nessuno sforzo analitico, che “non si capisce più niente” e che l’Italia, molto semplicemente, “è impazzita”. Invece, a un livello assai profondo della nostra società, è in atto una gigantesca lotta tra la libertà e le regole antiche, ovvero tra l’emergente ideologia della società liquida e la superstite ideologia della società radicata. L’Italia non sa decidersi e, in attesa di decidersi, permette imbambolata questa stratificazione di impulsi e di idee che sono ora antichissimi e ora modernissimi.

Quali erano i valori di Fabiana e del suo giovane carnefice? In che misura il mescolamento senza amalgama di valori dissonanti segnava le loro giornate? Due fantasmi ne minavano l’equilibrio: la ricerca spensierata della libertà e dell’esteriorità e l’oscuro bisogno di potere. Nessuno ha avuto il coraggio di dire loro due semplici verità: che la libertà è un piacere difficile, faticoso e a volte pericoloso, e che nessuno è immune da sentimenti eterni quali il possesso, l’onore, la vendetta, che solo la cultura può tenere a bada. Infine è andata nel peggior modo possibile, e la confusione dei tempi s’è divorata la vita di questi giovani ragazzi, vittime di un terremoto che li ha penosamente sovrastati.

Ognuno, nella confusione generale, si regola come può e come sa; ma sempre più spesso capita di vedere mal convivere impulsi antichi e istanze moderne, come vivessimo in un Paese dove tutte le epoche siano all’improvviso divenute contemporanee. E nessuno di noi è immune da questa confusione, che è anche linguistica, perché le parole che noi usiamo sono tutte ormai declinate arbitrariamente in base alla faticosa costruzione identitaria che ciascuno di noi sta sperimentando mescolando alla rinfusa tutto ciò che càpita per le mani. Dunque si parla tanto, ma spesso non ci si intende nemmeno un po’.  

Forse la grande colpevole è questa società della facilità e delle scorciatoie (del piacere come unico dovere) che crea troppe illusioni e troppe inevitabili frustrazioni. Al dolore, alla perdita, alla sconfitta, all’abbandono (ai limiti dell’uomo) ormai si risponde con l’autolesionismo, con la vendetta, con il delitto, perché oggi ha riconosciuta dignità soltanto chi vince, chi ha una bella fidanzata, una bella macchina, un po’ di banconote da esibire davanti agli altri. E in questo Paese dei balocchi essere abbandonati o allontanati da una ragazza non è più un triste e malinconico accadimento della vita (che sempre è fatta di gioie e di tristezze), ma il brusco risveglio da un sonno beato dove si era stati illusi che si poteva avere tutto e subito, vincere sempre e comunque, veder sempre riconosciuti i propri muscoli. Non è mai stato e mai sarà così, e rimuoverlo può soltanto portare al crimine, alla rovina, a marcire in galera senza che nessun padre chieda scusa per aver insegnato impunemente il peggio della tradizione e il peggio della modernità, ovvero l’utopia rovesciata di una società che pensa di potersi sbarazzare della serietà (che è l’unica virilità possibile), che sempre è fatta di sacrificio e di pazienza, di tolleranza e di pietà, e del fondamento di ogni amore, che è l’intelligenza.      

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