I dolci del Natale

Racconti e tradizioni sotto l'albero

Tanti dolci tipici di questo periodo sono un richiamo alla fertilità o all’abbondanza, come il panettone

di Marina Cepeda Fuentes

Racconti e tradizioni sotto l'albero

Pallone di Fichi Calabresi

Una leggenda calabrese racconta che Maria, Giuseppe e Gesù, mentre stavano fuggendo da Nazareth verso l’Egitto per scampare alla strage degli innocenti ordinata da Erode, trovarono rifugio di notte sotto un bell’albero di fico che  accolse  la Sacra Famiglia allargando le sue grandi foglie fino a  nasconderla agli occhi  dei soldati del malvagio re. 

Al mattino seguente, svanito il pericolo, la  Madonna uscì  dal nascondiglio e  rivolgendosi all’albero  gli disse:  “Che tu sia benedetto, o fico. Due volte all’anno  darai   i frutti più dolci della terra”.  Per questo motivo, a giugno e a fine estate il fico  produce frutti dolcissimi che,  in ricordo  della leggenda,  i calabresi consumano  seccati al sole per celebrare  la nascita del Bambin Gesù.

   Aldilà dei racconti leggendari, la tradizione di consumare fichi secchi durante le feste natalizie esiste in molte regioni  italiane. Ad esempio,  rimanendo  in Calabria,  sono  tipici del   versante tirrenico i cosiddetti “palloni”, ossia fichi ripieni di noci e  cedri che, avvolti in foglie d’arancio, formano una palla;  mentre della Calabria  ionica  sono le “crucette”, cioè piccole croci  formate con quattro fichi secchi imbottiti di mandorle, che si mettono al  forno finché diventano dorate e poi, bagnate col vincotto, si collocano in un recipiente di terracotta a strati separati da foglie di alloro in modo  che  si conservino fino al 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate.

 Il lauro è anche presente nel Natale campano, quando i  fichi seccati al sole e riempiti di mandorle e noci vengono avvolti  nelle loro profumate foglie. E a Genova, una filastrocca   ricorda che:   “A Natale si riempiono i piatti di pietanze e  poi  cantando tutti  in  coro  si mangia il Pandolce  col  ramoscello d’alloro”. Infatti  nel  giorno della  nascita  del Signore   il   “panedolce” genovese,  preparato con  tanti pinoli,  cedro candito  e  uvetta,  viene  collocato   in mezzo alla tavola con  un  rametto di  lauro infilato nel  centro.

Panedolce


    La  presenza dell’alloro  nelle  tradizioni natalizie   risale probabilmente   all’antica  Roma dove, durante  le feste del  primo gennaio   dedicate al  dio  Giano, ci  si  scambiava  come   dono beneaugurante  - “perché nelle cose passi il sapore, e  l’anno qual cominciò sia dolce” - fichi e datteri accompagnati da ramoscelli  di lauro  detti “strenae” perché venivano staccati in un boschetto  sulla via  sacra consacrato  alla dea Strenia, portatrice  di  fortuna e felicità.  Poi,  a poco a poco si chiamarono “strenae” anche  doni  di vario genere e addirittura monete. Da quell’usanza, come scrive Alfredo Cattabiani nel suo “Calendario” (Mondadori), deriva la  parola “strenna”  per denominare  oggi  le novità natalizie  e  anche il tradizionale scambio di regali e della mancia.

   Anche  l’usanza di  consumare a Natale dolci  preparati con  la  farina di frumento  potrebbe risalire agli  antichi  Romani. Infatti Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale parla di focacce in  uso il  giorno del “Natalis Solis Invicti”: “... e si confezionavano  le sacre  e antiche frittelle natalizie di farinata...”. La  festa  del “Natale del Sole Invitto”, la massima divinità dell’Impero  Romano, fu stabilita  dall’imperatore Aureliano nel 274 d.C.  circa  il  25 dicembre,  qualche  giorno dopo il solstizio  invernale, quando  il “sole  nuovo” era salito sull’orizzonte. Si festeggiava  con  grande solennità   per diversi  giorni e,  siccome molti   cristiani   vi partecipavano attivamente, nel IV secolo la Chiesa romana decise  di celebrare in quello stesso giorno il “Dies Natalis Domini”, il  Natale di Gesù, il vero Sole che illumina con la sua Luce tutto l’Universo.

   Forse   un ricordo di quell’antica concezione solare delle  feste natalizie sono i dolci che per l'occasione si confezionano ancora in Calabria  a forma di serpente che si morde la coda, l’animale  che nell’antichità,  in tutta  l'area  mediterranea, era  simbolo  del principio vitale, simile ad un raggio di sole che scende sulla terra per  vivificare  e ordinare la natura.  D’altra  parte l’Uroboros  o serpente  che si  morde  la coda, è  l’immagine  della perpetuità cosmica,   del  rinnovamento dei  cicli:  un’immagine solare   per eccellenza  come sono  appunto  i dolci  natalizi  calabresi,  la “scaliddra”,  la scala, una spirale di pasta racchiusa in  un  ovale della stessa pasta, come un serpente dentro l'uovo, che  poi viene fritta  in  olio bollente e immersa nel miele profumato  di spezie; oppure la “pitta ‘mpigliata” o spirale piana, che altro non è se non un  grosso serpentone ripieno di frutti secchi e messo a dorare  nel forno  caldissimo. 

Urobros


Ma in Calabria vi sono molti altri dolci  che  si consumano tradizionalmente  dal  24 dicembre al  6 gennaio,  festa dell’Epifania:    soprattutto le frittelle di farina zuccherata  che si preparano di solito il 23 dicembre con grande solennità. Il primo gesto  è  del capofamiglia o di chi ne fa le veci, il  quale  getta nell’olio bollente  la prima striscia di pasta preparata.  I fritti natalizi in Calabria sono simbolo di festa, e perciò “non si frigge” nella  casa  colpita da lutti recenti, che un  detto definisce  per questo motivo “infelice”: “Amara chira casa ch’un si fria”.

   Ma  torniamo al pane e ai suoi derivati dolci  che  costituiscono quasi  un simbolo del Natale non solo in Italia  ma in tante  parti del  mondo. D’altronde Cristo stesso aveva detto: “Io sono  il  pane della vita; chi viene da me non avrà più fame e chi crede in me  non avrà  più sete...”.  Profeticamente la cittadina di  Betlemme  (Bet Lehem)  dove nacque Gesù significava  “Casa del pane”  forse perché era circondata da campi di frumento.

In provincia di Arezzo la sera del  24 dicembre si colloca solennemente sul focolare un  ciocco  di quercia -  il Ceppo - e mentre comincia a bruciare  si  canta: “Si rallegri  il Ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di  Dio entri in questa casa; le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina, e si riempia  la conca di  vino”.  Questo desiderio di abbondanza  si riflette  nei grassi  dolci toscani natalizi come nel “pan giallo”, una  grande pagnotta  più  bassa  del panettone, a  base  d’olio d’oliva,  uva sultanina,  canditi, pepe, sale e zafferano; oppure  nel “panforte” di Siena detto anche “panpepato” perché una volta era preparato dagli speziali che vi utilizzavano alcune spezie fra cui il pepe; ma anche nella  pisana “torta coi  bischeri”  che  al riso unisce  gran  quantità di  uva passita,  pinoli, frutta  secca, cioccolato  e zucchero,  e  viene racchiusa  in  uno scrigno di pasta frolla quasi fosse un  prezioso tesoro.

Torta co' bischeri


   Tanti  altri dolci  tipici  di Natale  sono  un richiamo  alla fertilità   o all’abbondanza,  dal  classico  panettone   milanese, arricchito  con uvetta e canditi, al “pangiallo” romano così  detto perché ricoperto da una pastella d’uova che nel forno diventa crosta dorata. Oppure il “panspeziale” o “pane certosino” di Bologna derivato da quello che confezionavano  i monaci della Certosa: raffinata versione del  “pan di Natale”  contadino  con uvetta, purea di zucca e miele al  quale nei monasteri  bolognesi  venivano aggiunti pinoli,  cedro,  zibibbo e burro.  Fra i molti altri   pani di Natale preparati una volta fra  le mura  dei monasteri  un posto d’onore è riservato al  “pampapato”  di   Ferrara,  con miele,  confettura  di  zucca   e l’immancabile  pizzico di  pepe che nel  Medioevo era  considerato digestivo e anche un lusso riservato solo per il Papa, da cui il nome del pregiato dolce natalizio.  Quanto al  “panpepato” umbro il miele tiene uniti i gherigli di noci  e mandorle, l’uva passa, il cioccolato fuso, il pepe e persino la noce moscata!

Poi vi è la “pinza” veneta di  farina di  granoturco condita con i soliti frutti secchi a pezzetti, che si mangia davanti al focolare mentre brucia il “Nadalin”, un grosso ceppo che si terrà acceso  fino alla notte dei Magi. 

Pinza veneta


E, per concludere  questo  breve viaggio alla  scoperta  dei pani natalizi tipici  di ogni  regione dell’Italia,  non bisogna dimenticare “lu ppene suttile”  pugliese del Gargano che due o tre giorni prima del Natale prepara ogni famiglia e che si conserva fino al 17 gennaio, quando lo si trasforma in “pancotto” da mangiare  col maiale appena ammazzato per Sant’Antonio. In terra  di Bari  invece il pane di Natale si chiama “panvisco”, è  d’origine turca  e viene confezionato con il fiore della farina,  il profumo della  polvere di Cipro e il denso vincotto di fico, carruba  oppure d’uva moscato: pane e vino, gli alimenti sacri per eccellenza, simboli  di resurrezione,  di vita, di pace eterna, come lo erano quelli  che, secondo la leggenda, portò il re di Salem, Melchisedech,  a  Gesù Bambino.

                                        

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