Editoriale

Riflessioni sulla soglia della porta di Giano: quando serve l'utopia

Coltivare un sogno può essere pericoloso (se la politica lo impone) ma anche salvifico

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

entre siamo sulla soglia della porta di Giano, che ogni dodici mesi ci vede in procinto di abbandonare l’anno vecchio per immergerci nel nuovo, ci sentiamo affrancati dal dovere di commentare gli episodi che hanno segnato e ancora segnano la nostra attualità, quasi come se fossimo in una sorta di terra di mezzo fuori dal tempo. E’ in questa situazione che, fra gli auspici e i timori per il “nuovo” che si profila nebuloso e il sollievo e il rimpianto per il “vecchio”, si fa strada la libertà del desiderio e, ancor più, quella dell’illusione. Illusione che il futuro immediato sia migliore, a dispetto di ogni ragionamento e di ogni sensata previsione; illusione che, appena fuori dalla sfera privata, può assumere le fattezze dell’utopia, se solo ci si avventura in quella pubblica.

Utopia, ovvero architettura della mente dove il quotidiano viene eluso e il caos e la dismisura cedono il passo all’ordine e alla misura, in un edificio perfetto ma immaginario, dislocato, appunto, in nessun luogo. Nella contrapposizione fra Realtà e Possibilità, alla prima attribuiamo più o meno consapevolmente una prerogativa intrinsecamente negativa, come di entità capace unicamente di resistere, di opporsi alla Possibilità, anche se solo dall’interno della realtà si possono irradiare le possibilità.

D’altra parte, la Possibilità interagisce con la Realtà e la influenza, essendo all’origine di stati d’animo quali il rimorso, il rimpianto, la paura, la speranza, a seconda che – specialmente sotto la porta di Giano – ci si volga al passato o al futuro. E a proposito di irruzione dell’utopia nella realtà, un “luogo” dove l’utopia non troverà diritto di cittadinanza è la televisione, specie dopo l’entrata in gioco dell’indice di ascolto – e anche della pratica dello zapping - trasposizione del principio di realtà e di democrazia, nello specifico della comunicazione regina.

In politica, il pendolo oscilla fra la bismarckiana “arte del possibile”, dove si nobilita la capacità di mediare, e il “senso della realtà”, che troppo spesso funge da alibi per far apparire decisioni impopolari prive di alternative, neutralizzando ogni argomento delle opposizioni; ed è Borges a distinguere – invitando a tenerli separati – il senso del possibile da un’interpretazione e da un uso nefasti dell’utopia come fuga dalla realtà o, si può aggiungere, come letto di Procuste del reale. Su questo terreno, Salvatore Veca fa notare come la catastrofe dell’utopia, nel momento in cui essa inclini a strutturare istituzioni, modi di convivenza civile, pratiche sociali, finisca per far precipitare il senso della Possibilità sul fatale piano inclinato della Necessità. E’ per questo che l'utopia, il non-luogo, ha bisogno di uno spirito che la sorvegli e, se necessario, soffi sul fuoco quando minaccia di spegnersi: un demone, appunto, che insista e non lasci mai la presa. Potremmo dire che solo grazie al demone dell'utopia gli uomini, qualche volta, diventano angeli.

Viene in mente l’idea di Europa, che agita cancellerie e sedi di partito, ma che condiziona anche la nostra quotidianità e, con essa, umori e malumori popolari: un’Europa sempre più e da più avvertita come ostile, in quanto travisata da una realtà meschina e opprimente, fatta di burocrazia e di astratti bilanci – “il mostro buono di Bruxelles”, secondo Hans Magnus Enzensberger – e dimentica delle radici comuni di quello che fu, nei sogni – nell’utopia? – di Jean Thiriart un “impero di 400 milioni di uomini”.

Ed è proprio in questa direzione che piacerebbe a molti, a destra e a sinistra, imboccare il cammino più autenticamente europeo, forti della constatazione weberiana, secondo la quale “è perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica che il Possibile non verrebbe mai raggiunto, se nel mondo non si ritentasse sempre l’Impossibile”Così, l’utopia che si realizza cessa di essere tale, ma contiene sempre in sé i germi di una rinnovata, ulteriore utopia, tanto da essere riconoscibile come puro dinamismo delle idee e delle svolte politiche e come molla dell’agire umano, al punto che la sua mancanza determina uno stato di depressione, sia individuale, sia collettiva.

Per una volta, allora, non ci sentiamo di concordare con le conclusioni di Marcello Veneziani, il quale, in un recente articolo sul Giornale, diagnosticava per la nostra politica la malattia dell’utopia, lamentando, per maggioranze e opposizioni, la perdita del senso di realtà. A sostegno del suo ragionamento, Veneziani adduceva argomenti validi e sotto gli occhi di tutti: ad esempio, il divario fra la finanza speculativa e l’economia reale e l’incapacità delle classi dirigenti di comprendere le concrete condizioni di vita della gente; ma a noi pare che questi, ed altri che si potrebbero citare, siano soltanto sintomi di uno smarrimento nell’astrazione di tecnocrati e politici, i quali non hanno certo davanti a sé le mappe di una qualsivoglia visione complessiva e, dunque, di un’utopia. Essi danno piuttosto l’impressione di procedere alla giornata, perseguendo l’interesse di gruppi avidi di ricchezze e di potere per l’indomani, se non addirittura per l’oggi, quando invece l’utopia è per l’avvenire. Un po’ come avveniva per le grandi famiglie ideologiche dei secoli passati, capaci di prospettare visioni all’insegna dei “domani che cantano”, sia pure illusori o, se volete, utopistici.

E allora? Quali sogni coltivare, fuori dall’orto di casa, per il 2014 che viene? Un grano di lucida follia, diceva qualcuno, magari proprio all’insegna di nuove utopie da trasformare in realtà.

 

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da piccolo da Chioggia il 31/12/2013 10:18:38

    bello questo scritto del Canapon del Ninno. denso in senso filosofico e con esplicazioni chiare, quasi latine. fa bene il nostro Autore a richiamare l'altro Canapone augusto, Marcello Veneziani, una sorta di nostro Canapone latitante, pel quale il nome è solo in epigrafe sulla targa del nostro comitato direttivo. mi chiedo perchè quest'ultimo non scriva due righe anche per noi Giangastoni di Totalitas senza presupporre che si debba dare sempre del soldo ai Berlusconi per acquistare il Giornale? dico questo non per partito preso ma perchè quell'euro che mi aprirebbe all'articolo del Canapon Filosofo mi serve per comprare il sacrosanto genere di conforto alla mia semplicissima mensa (leggere se se ne abbia tempo anche qualche altro mio commento): della brava cioccolata quadrata (avete capito che marca intendo: è garantita non-ogm). "primum vivere deinde philosophari" fu detto con, oggi estrema, ragione. Realtà e Possibilità. Bismarck e Napoleone. Costruzione effettiva e Castello dell'Utopia. un suggerimento di riflessione: l'ouverture di Beethoven: "Die Weihe des Hauses". è una trionfale sinfonia di scena dove, appunto, il gigante di Bonn eleva i pilastri invisibile a rinforzo benaugurale d'una casa che vien consacrata. un interessante esempio di musica architettonica che stende il velo di seta dell'Utopia sulle durezza fragile delle pietre effettive della Realtà. invito i Giangastoni lettori di Totalità a diventare esperti assoluti di Beethoven. la sua musica affina in modo sorprendente i sensi interni. datemi pure del poetastro estemporaneo. non recedo comunque. e per fortuna che la scuola italiana è un disastro. avessi studiato Beethoven coi maestri di tale istituzione non avrei capito che poco.

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