Cosa ne resta oggi?

Dalla Querelle des Buffons alla Serva Padrona

L’opera lirica, italiana e non, patrimonio dell’umanità I parte

di Domenico Del Nero

Dalla Querelle des Buffons  alla Serva Padrona

Maggio Musicale e teatri d’opera italiani; cala il sipario?

L’opera lirica, italiana e non, andrebbe proclamata patrimonio dell’umanità. Poche forme di spettacolo hanno infatti nei secoli saputo coniugare un altissimo grado di elaborazione artistica con una straordinaria popolarità, al punto da dar luogo in tutta Europa a vere e proprie agguerrite tifoserie: dalla cosiddetta Querelle des Buffons che scoppiò a Parigi nel 1752 grazie alla rappresentazione della Serva Padrona di Pergolesi, con il pubblico della sofisticata capitale francese che si divise tra sostenitori della grazia e dell’arguzia dello stile italiano contrapposto a quello più severo e compassato di Lully e Rameau; per venire poi, nell’Ottocento, al grande conflitto tra wagneriani e antiwagneriani, che vide lo stesso Nietzsche passare in un certo senso da un campo all’altro; con episodi al limite dell’incredibile, che ricordano i peggiori disordini di una partita calcistica. E’ un po’ difficile per noi oggi immaginare il loggione della Scala come la … curva di San Siro; eppure, se prendiamo ad esempio la cronaca della prima del Mefistofele di Arrigo Boito, avvenuta nel massimo teatro milanese (e italiano) nel 1868 dopo mesi di spasmodica attesa e di fiera battaglia a colpi di elzeviro, non c’è poi molta differenza; tafferugli, intervento della polizia, rappresentazioni sospese etc, al punto che si dice che il compositore si recasse a teatro con una pistola in tasca. Se anche non è vero, rende però benissimo l’idea del il clima della serata.

Cosa resta oggi di tutto questo? Si può ancora definire l’opera lirica un fenomeno “popolare”? Sicuramente non è un fenomeno “di massa” (per fortuna) e certo se un grande direttore d’orchestra o un grande cantante può ancora contare su una nutrita schiera di  appassionati devoti e a volte persino fanatici, certo non siamo ai livelli delle rock  o pop star, o anche più semplicemente di qualche gettonato canzonettista del momento. Tutto questo ha ovviamente uno sgradevole corollario: almeno in Italia, l’opera lirica non riesce minimamente a far quadrare il bilancio. Una brutta “stecca” che porta molti a chiedersi se valga la pena di tenere in vita una forma di spettacolo i cui costi sarebbero sproporzionati all’interesse che riscuote e alla sua diffusione.

Ora è discutibile che l’opera lirica interessi solo risicate minoranze anche se certo non può competere con un concerto rock; ci sarebbe da dire che fa anche molto meno danni perché di solito  Rossini o Wagner hanno il potere di mandare in estasi senza ricorre a un indotto potenzialmente molto pericoloso.  Il punto però non è questo; bisognerebbe chiedersi invece come mai in Italia anche i teatri d’opera non escano purtroppo dal coro delle tante strutture in deficit continuo e permanente; pochi spettacoli,  dove gli acuti, spesso, riguardano solo le cifre spese. All’estero, soprattutto nelle grandi capitali europee come Berlino e Parigi, si vedono molti più spettacoli e a volte anche numerosi teatri attivi in una stessa città. Cosa si cela dietro le quinte?

Sicuramente il solito problema di sprechi e apparati costosissimi. Un esempio che spesso è rimbalzato nelle cronache  ultimamente è quello del Maggio Musicale Fiorentino, uno dei festival più prestigiosi a livello non solo italiano ma europeo.  Fu fondato nel 1933 da Vittorio Gui ma sotto gli auspici di Alessandro Pavolini che in quell’anno era federale di Firenze e che ne annunciò la nascita e il programma già in un numero del “Bargello” del 1931:  “Il Maggio Musicale vuol essere ben altro che una mera rassegna di novità recentissime, o di curiosità per competenti esibita lungo una serie di pomeriggi, in una saletta affollata da tipi bizzarri. Verranno da noi i grandi direttori d’orchestra, i grandi esecutori come a un convegno memorabile; le più alte espressioni raggiunte dalla musica di tutti i tempi si alterneranno con le più alte espressioni della musica d’oggi; e si avranno opere nei teatri, concerti sinfonici e da camera nei saloni, insigni spettacoli nei parchi e negli anfiteatri. Un complesso di manifestazioni uniche, in una serie di cornici uniche.”

Dispiacerà forse a chi vede nel Fascismo solo una galleria di nefandezze, ma mentre le enunciazioni dei politici rimangono oggi spesso e volentieri allo stato di auspici (magari pure sgrammaticati)  quella di Pavolini si realizzò in pieno: si può dire che due siano  le anime di questo festival davvero d’eccezione: una di ricupero e una di sperimentazione. Le più alte espressioni della musica di tutti i tempi: bastano i nomi di Monteverdi e Rossini. Ben prima che il festival di Pesaro iniziasse la sacrosanta riscoperta di tutta la produzione del suo sommo cittadino (e senza con questo volergli nulla togliere) la rinascita di certi titoli soprattutto del repertorio serio iniziò nel capoluogo toscano: si pensi solo alla storica Armida  del 1952 con Maria Callas; mentre l’anno prima sempre il Maggio ospitava la prima assoluta del Prigioniero di Luigi Dallapiccola. Sin dalle sue prime alzate di sipario, il Maggio,  grazie anche alla sua caratteristica singolare di non essere legato al nome e alla celebrazione di un singolo artista (in stile Bayreuth e Salisburgo) ha sempre spaziati tra titoli usciti dal repertorio tradizionale, provocandone sovente un felice rientro  e novità assolute.

Purtroppo negli ultimi anni questo ruolo si è sempre più appannato, anche a causa di una situazione economica quantomeno sconcertante.  Come ricorda Marco Ferri, giornalista fiorentino che dal Giornale della Toscana ha attentamente seguito e tutt’ora monitora la situazione è dal 1998 che il bilancio del Maggio è in rosso , con l’eccezione del commissariamento del  2005; nel 2010 poi i livelli sono stati da catastrofe:  “: -8,3 milioni di euro di bilancio e oltre 27 milioni di euro di esposizione finanziaria. E quel che è peggio, per due anni il deficit ha superato il 30% del patrimonio della fondazione, quindi – come impone la legge – il Maggio andava commissariato” (1)

Sono cifre che darebbero i brividi in ogni tempo e in ogni circostanza, ma in tempo di crisi più che stonate sono proprio cacofoniche. A questo bisogna aggiungere l’assurda vicenda della costruzione del nuovo “parco della musica” con criteri quantomeno discutibili e il cui completamento  è ancora da definire cin precisione.

(continua)



[1]Marco FERRI, Maggio Musicale, il tempo è scaduto, in Il giornale della Toscana, Firenze,  7 settembre 2011. 



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