Intervista a Marcello Veneziani

«Ho smesso di Credere che si possa cambiare il mondo, preferisco ricordare quello passato»

Lo scrittore e la scrittura. Twitter: i pronipote sportivo dell’aforisma, i poeti scrivono ma non leggono, letteratura= procreazione

di Maria Cerasi

«Ho smesso di Credere che si possa cambiare il mondo, preferisco ricordare quello passato»

Marcello Veneziani

Arrivo a casa di Marcello Veneziani. Vive al terzo piano di un’antica palazzina: le scale sono molte e ripide, forse le sto salendo troppo in fretta. Lo saluto ansimando, lui mi abbraccia e mi lascia entrare nella sua piccola e calda dimora. Sono circondata da libri di ogni età e dimensione, alcuni sono riposti in zone della casa che appaiono inaccessibili, altri sembrano avvicinarsi in silenzio per invitare alla lettura: tra questi c’è un immenso Don Chisciotte lasciato aperto che mostra un’immagine del cavaliere errante a cavallo. Alla vista di quel grandioso patrimonio di libri penso: “Ok, la mia intervista calza a pennello con lo spirito di questa casa”. Nel frattempo torno alla realtà e mi accorgo di trovarmi in un’amabile conversazione con Marcello Veneziani, quello scrittore che ho sempre letto e ammirato e che ora mi accoglie nella sua casa come una figlia. Decido allora di iniziare il mio viaggio sugli stili di scrittura partendo da una delle frasi più rappresentative della sua persona: “Vivere è solo un pretesto narrativo per scrivere”…

Il tuo sembra essere un amore talmente forte per la vita pensata da concepire, attraverso la scrittura, tanti “figli”, che sono poi i tuoi libri e i tuoi articoli…ecco parlaci un po’ di qualche tuo concepimento e di come hai partorito questi tuoi figli…

Quando penso ai parti dei miei libri, il primo che mi sovviene, è quello di Plotino, perché lo volevo scrivere da 13-14 anni. Un libro così a lungo covato l’ho scritto soltanto in 4 settimane…insomma una gravidanza pazzesca e un parto brevissimo! Ricordo che a un certo punto, mentre ci stavo lavorando in totale solitudine a Talamone, si è aperta improvvisamente la porta di casa e io ho inserito questo fatto nella conclusione del mio libro: sembrava come se Plotino fosse stato presente alla scrittura e poi se ne fosse andato.

Parliamo ora del tuo stile, che va da una prosa ricca di immagini suggestive che conquistano perfino i sensi a un linguaggio giornalistico ricco di humor e giochi di parole, fino ad arrivare ad un vero e proprio trattato filosofico, Amor Fati. Potresti raccontarci come nasce la varietà della tua scrittura?

Nasce da una varietà di interessi e forse da una natura “bipolare”: io a volte sono attratto dalla vita e dalla cronaca e quindi parlo come si parla nel linguaggio contemporaneo, a volte invece mi chiudo nella mia lettura o nelle mie opere e quindi vivo la distanza dal mio tempo, di conseguenza il linguaggio assume le forme della distanza dal mio tempo. È un po’ una dannazione per me: per certi versi è una ricchezza, ma a volte è difficile mettere insieme tutti questi registri linguistici…cioè sembra un po’ una comitiva che si dà appuntamento in una persona sola…insomma, quattro persone in una!

La molteplicità di linguaggi è un aspetto molto interessante e mi fa pensare agli esercizi di stile di Raymond Quenau, che constano di una stessa trama raccontata in novantanove stili di narrazione diversi. È possibile per te applicare questo principio non solo a storie, ma anche a temi più complessi come la filosofia, l’amore, la religione?

Devo dire che io ci provo. Sotto la formula di quella che oggi viene definita filosofia pop ho provato a incontrare il linguaggio della filosofia al di fuori dei canoni accademici, quindi ho cercato di parlare di filosofia cercando di penetrare nella vita reale e di far dedurre una teoria da un paradosso, da un aspetto grottesco, da qualcosa di esagerato. Io credo che l’esercizio proprio dell’intelligenza sia mettere in relazione mondi diversi, cioè la capacità di correlare quello che può pensare la mia fruttivendola con quello che può pensare il mio filosofo di riferimento. La mia convinzione di fondo è che siamo tutti implicitamente filosofi, perché tutti ci poniamo delle domande disinteressate sul mondo, sulla nascita, sulla morte…il problema è di ricondurre a questa universalità di partenza anche quelle riflessioni che sembrano essere totalmente astruse, lontane, incomprensibili. Se sono vere e importanti devono essere comprensibili.

A proposito di stile, parliamo di Centaura: un piccolo libricino di aforismi che definirei “poetosofici”, e cioè a metà tra filosofia e poesia, come tu stesso scrivi nell’opera. Quale esigenza ti ha spinto ad adottare questa particolare forma?

Guarda, io ho cercato di condensare teorie in aforismi: questa è stata la mia scommessa. La mia idea era quella di cercare un linguaggio simbolico che fosse perfettamente concentrato, dove ogni parola ha un suo significato che viene colto soltanto nella sua musicalità: qualcuno si può innamorare di quattro frasi e le altre novantasei buttarle via…io credo sia un tentativo di fare una teoria filosofica e di condensarla in cento battute, in cento twitter. Quello che più mi ha sconfortato di quel libro è quando qualcuno mi ha detto: Marcello, ho letto il tuo libro di poesie…ma quelle non sono poesie! Sono pensieri poetanti, cioè pensieri che vengono espressi in forma poetica, ma non sono versi.

Esploriamo le strutture dei tuoi libri: penso a Il segreto del viandante, che è diviso in mesi, poi penso a I Vinti, suddiviso in categorie di persone a cui viene rispettivamente attribuito un colore. È frutto di un’intuizione creativa o di un processo più lungo e pensato?

C’è sicuramente un aspetto di intuizione creativa, però ogni struttura corrisponde alla materia che io tratto. Il segreto del viandante è un viaggio nel tempo, e in quanto tale ho immaginato un anno ideale con mesi dedicati. Per I Vinti ho voluto parlare di una sorta di arcobaleno della natura umana, cioè di varie sensibilità che possono essere ben configurate attraverso i colori. Di certo non sarebbe possibile l’inverso: I vinti fatti per mesi, o il viandante a colori…anche perché sullo sfondo io sono dell’idea che ci sia un’intima relazione tra pensieri, luoghi e tempi, quindi quando si sceglie un mese anziché un altro o un colore piuttosto che un altro ci si avvicina all’alchimia della verità, che è fatta di colori, dosaggi, tempi e pozioni.

Nel saggio “Rovesciamo il ‘68” hai fatto un bilancio dell’esperienza sessantottina attraverso una serie di pensieri-frammenti che, pur essendo legati tra loro, hanno vita propria e possono essere letti in ordine sparso. Perché questa scelta?

Ho cercato di fare un discorso molto coerente: i frammenti non sono estranei l’uno dall’altro perché insieme costituiscono un argomento, però anziché proporre la lunghezza di un periodare, ho preferito il flash, il frammento, l’incursione…anche perché io sostengo che viviamo in una vita fatta di spot, zapping, twitter, quindi viviamo una vita sbranata, cioè fatta a brani, per questo bisogna anche pensare a brani.

Sebbene tra i tuoi ultimi lavori ci siano alcuni aventi temi diciamo “pubblici” come, ad esempio, Dio, Patria e famiglia, mi sembra che ti stia orientando sempre più verso una dimensione privata, quasi nostalgica. Confermi questa mia sensazione?

La cosa certa che posso dire è che il saggio politico non è nelle le mie corde come lo era quindici anni fa. Nella fase che sto vivendo ci sono sicuramente molti elementi privati, ma parlerei più di interiorità. Nell’interiorità ci metto dentro sia un aspetto letterario, sia un aspetto di riflessione filosofica, che però non è di natura privata ma di natura universale, perché quando parli della cosa che ti sembra più tua, più personale, sai di parlare ad ogni uomo. La fase più storico-politica è finita con lo scorso millennio (lo dico per dare l’idea di essere una persona molto anziana!) L’allontanamento dalla dimensione storico-politica è dovuta al disincanto e all’amarezza del fatto che non c’è nessuna rivoluzione, non aspettiamo nessun salvatore politico. Ho smesso di pensare che si possa cambiare il mondo, allora mi limito soltanto a ricordare quello passato.

Nel mezzo del cammin di questa intervista, decidiamo di prenderci un caffè e conversare liberamente sul linguaggio futurista. Mentre Marcello prende le tazzine, io mi accorgo della presenza di un piatto d’argento colmo di confetti, non resisto e ne rubo uno. Mentre lo mastico, scopro un sapore inaspettato: è alla liquirizia…dovevo aspettarmelo, perché già sapevo del suo amore per questa pianta in tutte le sue forme. “Mi piace l’effervescenza futurista, avrei voluto vivere quell’esperienza, vedere quell’entusiasmo che trasmetteva, però poi se dovessi dire quali sono le opere più significative che il novecento ci ha lasciato, avrei difficoltà a trovarne qualcuna futurista…forse nel campo della pittura, ma nella poesia, nella letteratura…voglio dire, i romanzi di Marinetti rispetto a Proust: preferisco chi va alla ricerca del tempo perduto piuttosto che chi sfascia il tempo passato.”…Io sorrido e annuisco: forse è il pensiero di quella scrittura piena di onomatopee e parole sparse in libertà che suscita in me il riso. Ritrovo il mio tempo, il mio caffè, e il sapore della liquirizia che si incontrano in quella stanza dominata dai libri e svaniscono nel proseguo del mio viaggio…

Tutti scrivono, soprattutto nell’era dei social network, ma pochi leggono, puoi dirci perché?

Innanzitutto perché viviamo un’epoca narcisista: ciascuno ritiene di essere sufficiente a se stesso e ritiene che la lettura sia un inutile tributo al prossimo e quindi basta avere se stessi, infatti ho sempre detto che se l’esercito di poeti in Italia (si parla di sedici milioni!) leggesse almeno due libri di poesie all’anno (non dico tanto, ma almeno due libri!) i destini della poesia sarebbero salvati, e invece purtroppo scrivono poesie ma non leggono poesie. Rientra appunto dell’egocentrismo della nostra epoca, è un lascito estremo del ’68, è una forma di sindrome di Peter Pan : il bambino che corre, che vede che con lui si sposta il sole e crede che il sole si sposti per lui e non viceversa…e poi c’è la grande fretta, il paradosso che  chi ha qualità mentali ritiene che sia tempo perso leggere perché è importante pensare al profitto e chi non ha niente a cui pensare preferisce candy crush alla lettura.

I cellulari prima e i social network dopo hanno fatto sì che molte persone si cimentassero in una nuova forma di scrittura che ricorre a espressioni abbreviate e slogan. Pensi che questa brevità imbarbarisca ulteriormente il nostro lessico, la nostra scrittura e persino il nostro pensiero?

Il rischio che possa imbarbarire è naturalmente molto alto, però tutto sommato sono favorevole sia al ritorno alla scrittura che c’è stato con mail, sms e twitter, sia a questa grande apertura all’universo della parola scritta. Quello che io denunciavo nella domanda di prima è la mancata corrispondenza tra leggere e scrivere: noi abbiamo bisogno di inspirare ed espirare, e quindi abbiamo bisogno di leggere prima ancora di scrivere…non è in sé la scrittura che mi preoccupa, perché l’idea che si possa tentare una sintesi a me piace! In fondo il twitter è il pronipote, anche un po’ sportivo, dell’aforisma, è il figlio un po’ scaciato (direbbero a Roma) dell’aforisma, quindi ha in sé la capacità di riuscire a sintetizzare un pensiero in una battuta.

I consigli che daresti al giovin scrittore creativo?

Se è creativo, non dovrei dargli consigli! Io ho tenuto un corso di scrittura creativa ad Ascoli: la prima cosa che dissi fu che il lavoro che mi accingevo a fare con loro era inutile, perché un creativo non può andare a un corso, deve andare per conto suo! Fatta questa premessa di fondo, l’impegno di chi vuol fare scrittura creativa è di non compiacersi della risonanza delle parole ma calarle nella realtà e immetterle nei contesti più strani, cioè se uno riesce a immaginare una situazione e a inserire la scrittura in quella situazione, ha già fatto un passo avanti. Dato, però, che non si crea mai dal nulla, io parlerei più di procreatività: la nostra capacità è quella di unirci, di ingravidare le cose…è questa la nostra forza!

Questo breve viaggio con Marcello termina così com’era iniziato: con un concepimento, una gravidanza ed un parto. Concepire un’idea, ingravidarla e partorirla nella forma che più ci aggrada, il tutto guidato dall’amore per la vita pensata, che smuove gli ormoni della creatività e genera attraverso varie forme di scrittura le storie di ogni uomo. Storie personali e universali, che ogni amante del pensiero sa di dover raccontare per tutti quegli ardenti lettori che si dissetano alla sorgente del libro.

 

 

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    5 commenti per questo articolo

  • Inserito da ghorio il 05/04/2014 16:42:07

    Ho sempre ammirato Marcello Veneziani da quando ho iniziato a leggere i suoi scritti su "Il Giornale" , allora diretto da Montanelli, e anche su "Il Tempo". Poi "Italia Settimanale" e "Lo Stato" , con grande delusione alla chiusura di queste due riviste. Continuo ad ammirarlo e queste sue dichiarazioni "sull'impossibilità di cambiare il mondo ", consolandosi con il passato non mi trovano d'accordo. IL ruolo degli intellettuali è quello di combattere sempre. Certo c'è la delusione perché mancano gli editori o meglio i finanziatori, costante per il vero di un certo mondo destra, con il portafoglio a sinistra. Pensavo che con "il ritorno ad Itaca" e il raduno poi di tanti intellettuali avesse portato a qualcosa di concreto ma vedo che nulla è cambia Spes ultima dea e pertanto non bisogna essere pessimisti. Certo che una rivista di centrodestra ben fatta, che tratta politica e cultura, manca davvero. Forse il ricordo del passato potrebbe far ritornare il Veneziani battagliero , all'indomani della chiusura di " Italia settimanale". E' quello che mi auguro.

  • Inserito da ghorio il 05/04/2014 16:41:02

    Ho sempre ammirato Marcello Veneziani da quando ho iniziato a leggere i suoi scritti su "Il Giornale" , allora diretto da Montanelli, e anche su "Il Tempo". Poi "Italia Settimanale" e "Lo Stato" , con grande delusione alla chiusura di queste due riviste. Continuo ad ammirarlo e queste sue dichiarazioni "sull'impossibilità di cambiare il mondo ", consolandosi con il passato non mi trovano d'accordo. IL ruolo degli intellettuali è quello di combattere sempre. Certo c'è la delusione perché mancano gli editori o meglio i finanziatori, costante per il vero di un certo mondo destra, con il portafoglio a sinistra. Pensavo che con "il ritorno ad Itaca" e il raduno poi di tanti intellettuali avesse portato a qualcosa di concreto ma vedo che nulla è cambia Spes ultima dea e pertanto non bisogna essere pessimisti. Certo che una rivista di centrodestra ben fatta, che tratta politica e cultura, manca davvero. Forse il ricordo del passato potrebbe far ritornare il Veneziani battagliero , all'indomani della chiusura di " Italia settimanale". E' quello che mi auguro.

  • Inserito da ghorio il 05/04/2014 16:40:34

    Ho sempre ammirato Marcello Veneziani da quando ho iniziato a leggere i suoi scritti su "Il Giornale" , allora diretto da Montanelli, e anche su "Il Tempo". Poi "Italia Settimanale" e "Lo Stato" , con grande delusione alla chiusura di queste due riviste. Continuo ad ammirarlo e queste sue dichiarazioni "sull'impossibilità di cambiare il mondo ", consolandosi con il passato non mi trovano d'accordo. IL ruolo degli intellettuali è quello di combattere sempre. Certo c'è la delusione perché mancano gli editori o meglio i finanziatori, costante per il vero di un certo mondo destra, con il portafoglio a sinistra. Pensavo che con "il ritorno ad Itaca" e il raduno poi di tanti intellettuali avesse portato a qualcosa di concreto ma vedo che nulla è cambia Spes ultima dea e pertanto non bisogna essere pessimisti. Certo che una rivista di centrodestra ben fatta, che tratta politica e cultura, manca davvero. Forse il ricordo del passato potrebbe far ritornare il Veneziani battagliero , all'indomani della chiusura di " Italia settimanale". E' quello che mi auguro.

  • Inserito da piccolo da Chioggia il 01/04/2014 15:01:43

    una annotazione seria dopo le smargiasserie del commento sottostante. (è il primo d'aprile e il pesciolino guizza contento nella sua bolla d'acquerugiola). in un caso interessante la prosa futurista con tutti i suoi dislegamenti di nessi grammaticali riceveva il plauso di D'Annunzio proprio nelle sue prose ultime: credo nel Libro segreto o nel Notturno ma propendo pel primo. forse è leggendo con assoluta fredda attenzione quelle linee dannunziane che si può arrivare all'unione attesa di prosa classica e magistralmente pittorica con la brevità acutissima dell'aforisma e dell'onomatopea. il quesito posto dal nostro Canapon filosofo è in realtà fondamentale: la sola biblioteca comunale di Chioggia se mi cascasse sulle spalle mi frantumerebbe le povere ossicine in polvere da tanti e tanti volumi che essa ha. come arrivare alla fusione? come condensare? i germanici dicono "dichten" per "poetare", e "dichten" vuol dire "condensare" appunto. quando rifletto che dei filosofi anteriori a Platone, di alcuni di essi come Eraclito bastano pochissime pagine per riportarne tutta l'opera eppure essa sfida i millenni e non i secoli ho la sensazione che il turbine scrittorio di oggi sia una burla che ci giocano gli Olimpici...pronti a ridere nella loro mensa di noi... una spigolatura ancora: von Doss in una lettera a Schopenhauer gli racconta di come l'opera del Leopardi sia limitata in fondo: "egli non ha scritto molto"... eppure... altra cosa: il nostro Canapone filosofo preferisce ricordare il mondo passato. non gli conviene piuttosto renderlo presente con dei bei racconti da farci leggere ogni tanto qui su Totalità? burle, episodi, esperimenti poetici, frottole varie. tutto può fare un gustoso "brodo di succiole" per noi lettori-commentatori-filosofi. poscritto le "succiole" sono le castagne lessate in acqua. antagoniste complementari delle "frugiate", le caldarroste.

  • Inserito da piccolo da Chioggia il 01/04/2014 14:02:15

    quei confetti alla liquirizia! nel supermercato ultraeconomico vicino casa campa cavallo che arrivino. forse la miglior pasticceria di Chioggia... ma devo saper la marca. il nostro Canapon filosofo dia anche dei riferimenti precisi al suo pubblico di lettori onnivori di bellezza e poesia. e poesia del gusto può essere il confetto di cui descrive l'articolo. tutti scrivono e nessuno legge. vero. ma accettiamo questa barbarie come necessaria al momento. avendo noi bruciato le antiche piume d'oca da tagliare con cura e poi intingere nel calamaio,operazioni che esigevano riflessione e fatica, e passando attraverso la stampa e arrivando alla scrittura elettronica immediata questo esito era necessario. a tutti piace ora scrivere e vedersi pubblicati. il proprio nome che è ombra del sogno d'un'ombra (dunque ombra al quadrato)a vederlo stampato dà per un istante l'idea che noi si sia qualcosa nella grande recita (ora cartone animato). almeno in effigie, nello scenario di carta colorata che è lo schermo elettronico o è il libro si è qualcuno. parlo e schernisco subito quel povero pavone spennato che sono io stesso: ora commento il Canapon filosofo e sono per una proprietà transitiva molto poco verificabile (meglio così) filosofo pure io. povero pavone... dove sono i trattati che schiudono le verità dell'anima? li hai composti? io no. non ne sono capace. leggo a mala pena e poco. hai risposto alle domande che si era posto Gautamo Buddha principe Sakya? impallidisco e dico no. nemmeno me le pongo per non schiacciarmi da solo come un moschino. meglio far finta di nulla. io scrivo solo smargiasserie e qualche lettore si diverte anche. tutto qui. hai diritto assoluto o Lettore di ridere di me. io stesso lo faccio.

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