Cronache da un'esposizione fiorentina

​Pollock e il senso dell'arte contemporanea

L'opera è quel che rimane al termine dell'azione, ma ciò che conta è proprio l'azione

di Daniel Borselli

​Pollock e il senso dell'arte contemporanea

Jackson Pollock

Non è facile, per una città come Firenze, instaurare un dialogo conciliante e pacifico con la contemporaneità: ogni apparizione modernistica, infatti, si mostra come un deturpamento del presente ai danni del passato (e quello fiorentino meriterebbe la 'p' maiuscola), un'operazione invasiva che scatena il rigetto tipico dell'organismo che non riconosce il nuovo come proprio. Come non inorridire di fronte ai dehors che si affacciano sul Battistero di San Giovanni, grazie ai quali ormai si può godere dei mosaici dorati del 'Giudizio Universale' tra un cappuccino e un aperitivo analcolico? Come non provare un brivido di angoscia nell'ammirare dal Piazzale la spettacolare danza di cupole e antichi edifici rinascimentali e scorgere appena un po' più in là la struttura irregolare e pungente del Palazzo di Giustizia di Novoli? Esempi simili si sprecano, ma ciò che ci preme è sottolineare come la città del Giglio fatichi enormemente - e in molti casi a ragione - a sentire vicine forme così distanti dalla propria sensibilità, costruita sulle pietre secolari del Centro Storico.

Un'integrazione difficile che non si limita alla quotidianità, alle esperienze di tutti i giorni, alle piccole mostruose epifanie dei McDonald's (ma se ne potrebbero citare molte altre) che continuano a fiorire mentre le botteghe storiche si sgretolano sotto la morsa della crisi, ma immediatamente si sposta in ambito artistico, terreno inevitabilmente diverso ma allo stesso tempo inestricabilmente legato al contesto più ampio. Ecco allora che, sebbene siano presenti numerose gallerie di arte contemporanea (segnaliamo, tra le tante, la CCC Strozzina situata sotto il cortile di Palazzo Strozzi, il suggestivo Museo Marino Marini nella chiesa sconsacrata di San Pancrazio e il fondamentale Museo Nazionale Alinari della Fotografia in piazza Santa Maria Novella), l'atteggiamento tipico del fiorentino medio oscilla tra la mancata conoscenza, la scarsa considerazione e il convinto disprezzo. Perché? Probabilmente per le stesse ragioni viste in precedenza per la contemporaneità più quotidiana e materiale, per la sensibilità fiorentina affettuosamente legata ai suoi monumenti storici e nostalgicamente restia ad accettare le manifestazioni del nuovo, spesso così brutto e volgare. (Una precisazione a questo punto è necessaria: la cittadinanza di cui parliamo, forse anche con un po' di incantata illusione, è quella dei fiorentini che vogliono ancora bene alla propria città; preferiamo non considerare le personalità insensibili alla Bellezza che il sabato sera trasformano le strade in discariche a cielo aperto o arrivano persino ad imbrattare con uno 'smile' la Fontana del Nettuno.) Ma non possono essere e di fatto non sono soltanto questi i motivi; procediamo con ordine.

Uno, due, tre. Succede però che ogni tanto Firenze riesca ad esibire mirabili intrecci della propria identità storica e di un'anima più aggiornata, senza snaturare la prima e centrando l'obiettivo di innalzare la seconda. È il caso della mostra 'Jackson Pollock. La figura della furia', inaugurata il 16 aprile e visitabile presso la doppia sede espositiva di Palazzo Vecchio e del Complesso di San Firenze fino al 27 luglio. In essa, l'auraticità e l'atmosfera da sogno dorato ad occhi spalancati del centro del potere fiorentino si fondono con l'opera di uno degli artisti chiave del panorama pittorico del Novecento, in un gioco perfettamente riuscito di opposti che si rivela ben distante da qualsiasi dissonanza. Per consolidare questa armonia ci viene chiesto di attraversare tutto il museo di Palazzo Vecchio, percorrendo il Salone dei Cinquecento sotto i trentanove pannelli prodotti dalla bottega vasariana in onore di Cosimo I de' Medici, poi su al secondo piano attraverso i quartieri monumentali, per arrivare infine alla Sala dei Gigli, dove, accanto al capolavoro donatelliano di 'Giuditta e Oloferne', ci attende la prima installazione, che ospita nove lavori di Jackson Pollock.

Quattro, cinque, sei. Pur nella certezza che il lettore, così come il visitatore della mostra, conosca perfettamente il personaggio, vale comunque la pena di dire due paroline al riguardo.[1] Jackson Pollock (1912-1956), uno degli ultimi pittori-mito, conduce una vita sregolata e tormentata che, come sempre accade, si riverbera nelle caratteristiche della sua produzione artistica: sull'onda lunga dei 'bohémiens' e dei 'poètes maudits', si costruisce un'irregolare formazione artistica tra varie accademie americane, ma sin da giovanissimo subisce soprattutto il fascino dell'arte messicana e della pittura rituale degli Indiani d'America. A questo si aggiunge che a venticinque anni Pollock è già un alcolista in crisi, motivo che lo spinge ad avvicinarsi alla psicoanalisi di Freud e Jung, e di qui alle avanguardie culturali europee, tutte irrimediabilmente affascinate dalle teorie dell'inconscio. Ecco qua le tre tracce tra cui l'artista si muove, e che lo portano nel '47 ad elaborare una particolare tecnica pittorica, il 'dripping' (letteralmente 'sgocciolamento'), tramite cui i cardini della pittura tradizionale (opera collocata a parete, utilizzo del pennello a contatto con la tela) vengono annullati: Pollock comincia a lavorare con grandi o piccole tele stese sul pavimento, ci gira intorno come in un rituale sciamanico, ci cammina addirittura sopra, non è più davanti al quadro ma dentro di esso, un quadro prodotto ora tramite schizzi o gocciolature irregolari di colore. Si ha l'utilizzo prevalente di un bastone di legno, ma, se c'è il pennello, questo non deve mai toccare l'opera. La violenza con cui i suoi lavori vengono realizzati fa guadagnare all'artista il soprannome di 'Jack the Dripper' (con ovvio riferimento al ben più violento Jack the Ripper, lo Squartatore) e ci ricollega subito alla corrente artistica cui afferisce Pollock, l'Informale europeo, che per semplice diversificazione geografica acquista in America il nome di Espressionismo Astratto. Benché i due termini siano equivalenti, è forse il secondo a fornirci una chiave di lettura più immediata per il lavoro del nostro artista: la figuratività viene totalmente a mancare, soppiantata da colate materiche dense e telluriche dal sapore di un Espressionismo aggiornato dalla catastrofe della seconda guerra mondiale. L'unica figura riconoscibile è Pollock stesso, con la sua violenza cromatica. La figura della furia, appunto.

Sette, otto, nove. I primi lavori che incontriamo ci mostrano tutto questo: l'influenza delle Avanguardie Storiche è ben riconoscibile in 'The water bull' ('46), in cui la pratica del 'lettering', consistente in lettere stampigliate con precisione meccanica e tanto cara a Braque e Boccioni, sembra sciogliersi sotto l'effetto di una forza combustiva che nulla lascia dietro di sé; oppure in 'Panel with four designs' ('34-'38), più vicino all'Espressionismo tedesco che all'Informale vero e proprio; o ancora in 'Senza titolo' ('44), angosciante ibridazione delle forme di Picasso e del mondo paranoico di Dalì. Più maturi e finalmente informali sono i due lavori 'Painting A' ('50) e 'Earth Worms' ('46): nella totale assenza di figure, la tecnica del dripping e la densità del colore rimandano ad una dimensione rituale, sciamanica e primordiale (supportata, nel secondo caso, anche dal titolo) che scuote le viscere ben più del pur indubbio fascino visivo e cromatico. Ma cos'è questa forza che pare farsi strada attraverso le opere di Pollock? E qual è il loro effettivo fascino? Ancora un attimo di pazienza.

Nella sala adiacente, scortati da una doppia rappresentazione di Niccolò Machiavelli, ci aspetta una delle trovate più intelligenti degli organizzatori: sei bozzetti in prestito dal Metropolitan Museum di New York e tratti dai taccuini di Pollock ('37-'39) vengono accostati alle riproduzioni dei lavori di Michelangelo che i disegni volevano rappresentare. Un modo per omaggiare uno dei più grandi artisti della storia nel quattrocentocinquantesimo anniversario della morte? Non solo. Uno stratagemma per mostrarci che Pollock non è stato solamente un pittore affascinato dalla non-forma ma era pure bravo tecnicamente? No di certo, perché si spera non ci sia bisogno di dirlo. La fonte di grandissimo interesse del confronto ideale instaurato dalla mostra è l'energia che, ancora una volta, sembrano aggiungere gli schizzi netti delle matite colorate di Pollock alla perfezione dei lavori di partenza. Non che una forte carica pulsionale e violenta sia estranea a questi ultimi: anzi, basta tener conto che riguardo la poetica di Michelangelo è stato scritto di una convivenza di petrarchismo (nei contenuti) e di dantismo (negli stilemi formali), un'unità tormentata che fa sì che si possa parlare, in un'espressione, di 'furia della figura.[2] E tuttavia i taccuini dell'artista statunitense appaiono pervasi da una vitalità malcelata, che spinge per venir fuori, per superare i secoli di sonno della ragione ed uscire dal foglio di carta. Il tormento interno di Pollock si riflette in quelle figure quasi in movimento, nella presenza di colore che non si fa decorazione ma piuttosto soffio vitale, persino negli appunti sconclusionati che campeggiano tutt'intorno (promemoria, considerazioni, addirittura un pentagramma), segno di un nesso ormai indissolubile di arte e vita. È dunque possibile il confronto tra Pollock e Michelangelo, e nello stesso momento non lo è più: Jack the Dripper ha qualcosa da comunicare, ma non può farlo con i mezzi tradizionali. Deve esprimere una forza interiore che non vuole più starsene assopita, magari a generare mostri. Che cos'è? Ci siamo quasi...

Dieci. Dieci minuti. Ecco quanto bisogna aspettare prima di udire la fatidica frase, sempre dolorosa eppure preventivabile: "Questo lo potevo fare anch'io". Viene pronunciata da una ragazza dall'aria curata, intelligente; eppure il suo commento è accompagnato da una smorfia a metà tra lo sprezzante disappunto e l'amara delusione. Ha percorso la prima stanza in una decina di minuti, soffermandosi su ogni quadro il tempo sufficiente per darvi un'occhiata rapida, disattenta, anche poco curiosa. E così tutti, mica soltanto lei: sciami di individui che attraversano l'ambiente come se si trovassero tra gli scaffali di un autogrill, alcuni chiacchierando tra di loro, altri fermandosi al centro e guardandosi intorno, altri ancora che voltano le spalle all'opera e conversano amabilmente con un amico, senza degnare nemmeno di uno sguardo il buon vecchio Jackson. Alcuni, infine, deambulano con lo sguardo fisso sullo smartphone o sul tablet, un'armata di zombie 2.0. Quasi tutti loro (ma probabilmente stiamo esagerando col pessimismo) esperiscono quello spazio, quel museo, come un luogo di passaggio, da vedere perché è un museo ed è bene visitarlo, ma non da vivere. In poche parole, un non-luogo.[3] Poi c'è la categoria ancora più insopportabile dello pseudo-intellettuale, che per fare colpo sugli altri (o forse su se stesso) arriva ad asserire, nella stanza dedicata al confronto tra Pollock e Michelangelo, che i bozzetti risalgono ad un'improbabile fase leonardesca dell'artista.

Torniamo alla nostra ragazza e alla sua innocente ma profonda critica: perché sente il bisogno di attaccare la scarsa bravura manuale e operativa di Pollock? Per quale motivo ritiene che questa possa costituire un elemento di discredito per l'opera? La risposta, in questo caso, è piuttosto semplice: perché ha ricevuto un'educazione - e non ci riferiamo esclusivamente a quella scolastica - basata su un'idea di arte come 'tèchne', come sapere operativo, per cui l'artista è il bravo produttore di manufatti, di oggetti. In questo scenario, il primato sensoriale spetta alla vista, unico canale di fruizione dell'arte antica, medievale e moderna, quella che il più delle volte si riesce a coprire nei licei. E dunque, se qualcosa non è visivamente bello, esso non merita lo statuto di arte. Quando si arriva, però, a considerare il panorama artistico contemporaneo, il sillogismo non vale più, l'arte diviene qualcosa d'altro. Dobbiamo allora chiederci, una volta di più, per cosa ciascuna opera voglia essere apprezzata: non c'è dubbio che la bellezza e la godibilità visiva rappresentino i metri di misura di Michelangelo, ma sembra fuori discussione il progetto di adottarli anche per Pollock: il confronto sarebbe impietoso, e d'altronde abbiamo cercato di insinuare fin qui il sospetto che su altre prospettive l'artista novecentesco instauri il proprio discorso; ora abbiamo i mezzi per capire quali esse siano.

Jackson Pollock avvia il proprio percorso artistico già durante il secondo conflitto mondiale, ma è solo dopo la fine della guerra che si ha la vera svolta nella sua produzione, come ci testimoniano l'approdo al dripping e le opere esposte a Palazzo Vecchio. Qualcosa è cambiato, e non solo nel pennello dello Sgocciolatore: la strage bellica degli anni precedenti ha colpito a morte il culto per la modernità e per la macchina che sin dai Futuristi aveva caratterizzato le Avanguardie Storiche (se un'automobile è più bella della Nike di Samotracia, alla stessa maniera Picabia e Duchamp introiettano la visione meccanica dell'apparecchio fotografico, Braque, Picasso e tanti altri assemblano pittura e brandelli di realtà, Schwitters origina macchine celibi con gli scarti della città, Breton definisce i Surrealisti come "apparecchi di registrazione"). Quella tecnologia che aveva portato a tanta morte e distruzione doveva ora essere sostituita da un ritorno al primordio, alla natura, ad una vitalità espansa, più consapevole, più profonda. Non più quadretti paesaggistici impressionisti, ma vere e proprie masse informi di materia colante che invadono il supporto della tela, togliendo ogni possibile spazio alla macchina e all'oggetto. Tutto emana slancio vitale nelle opere di Pollock, dalle figure michelangiolesche che si caricano di febbricitante movimento al lettering che si squaglia e si distorce, ma solo con il definitivo abbandono della figuratività il percorso può dirsi concluso: se il disagio della guerra ha provocato un impossibilità di dialogo e ha indotto una nuova forma di mutismo, meglio non provare affatto a dire qualcosa, e affidarsi piuttosto ad un'azione solitaria come può essere quella di danzare intorno ad un quadro imbrattandolo di grumi materici. Nasce così l'Action Painting, la cosiddetta pittura d'azione, per la quale "La pittura non è più deposito di pigmenti su una superficie, ma 'atto' a conclusione del quale resta una traccia [...] L'opera è quel che rimane al termine dell'azione, ma ciò che conta è proprio l'azione",[4] tanto che addirittura si potrebbe piuttosto parlare di Action Painted, una performance immortalata dalla tela. In questo modo, il dipinto smette di funzionare come rappresentazione iconica e passa ad essere vera e propria presentazione di una realtà (un segno indicale, direbbe Peirce), una sorta di fotografia. Non è casuale che appena fuori dalla prima stanza siano state collocate alcune foto di Hans Namuth che ritraggono Pollock all'opera, ma in verità tutto questo è in un certo senso superfluo: una tela di Pollock, in quanto traccia istantanea di un'azione, rimanda inevitabilmente all'azione che l'ha prodotta, ai movimenti che l'autore ha compiuto, persino a ciò che ha provato durante la sua performance.

Ed è questo l'aspetto più profondo, più bello, e in qualche modo anche più toccante dell'operazione artistica: di fronte a 'Paiting A' o a 'Earth Worms', se siamo capaci di sintonizzare la nostra sensibilità sulla lunghezza d'onda adeguata, possiamo ancora sentire l'interiorità dell'autore, la sua vita, il suo tormento, persino la sua tragica morte in un incidente d'auto; abbiamo una possibilità di connetterci con Pollock come se avessimo una sua foto nel nostro album di famiglia, come se fosse un nostro caro. Ecco allora che mentre per Pollock, come scrivono Barilli e Calvesi,[5] la non-forma è una possibilità di affacciarsi sul mondo e di comunicare direttamente con la realtà, per noi essa diviene un'occasione inedita di dialogare a distanza con l'artista stesso, e di inaugurare con lui una nuova empatia, una partecipazione emotiva. In questo modo si esorcizza, inoltre, lo spettro che aleggiava dopo la seconda guerra mondiale: presa coscienza dell'incomunicabilità, si dà vita ad un diverso tentativo di comunicazione, più profondo, più primordiale, anche inconscio e sciamanico, se si vuole. Tanto per gradire, su una delle pareti della mostra giganteggia una frase di Pollock: "Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che faccio. Solo dopo una specie di 'presa di coscienza' vedo ciò che ho fatto". E dunque, infine, ecco qua la forza vitale che abbiamo visto percorrere le varie opere: è la forza delle pulsioni, degli istinti, dell'accettazione totale della vita, del desiderio amoroso; è la vita che risorge dalle ceneri della guerra e dalle costrizioni della società e della ragione. Per questa energia dal profondo vuole essere apprezzato il lavoro di Pollock, e non per una banale gradevolezza visiva.

È vero, è estremamente complesso, ma la nostra ragazza scandalizzata dovrebbe tener presente tutto questo, e con lei i vari e ben più tronfi detrattori dell'arte contemporanea. Si può non avere i mezzi per comprenderla a fondo - e la mancanza di uno studio serio nei licei delle correnti artistiche dell'ultimo secolo e soprattutto dell'ultimo cinquantennio è un peccato mortale -, ma ci si può attrezzare e procurarseli: potrebbe rivelarsi un'esperienza gratificante e addirittura divertente. Un altro discorso, invece, va fatto nei confronti di coloro che non per semplice ignoranza ma per faziosità e cocciutaggine rifiutano in toto l'arte contemporanea e credono di poter vivere felici così. Pensare che l'arte sia solo quella che va dall'antichità alla fine della modernità (metà Ottocento) non è solo un esempio di passatismo nostalgico, ma un vero e proprio tentativo di negazionismo storico. Asserire che l'arte contemporanea sia inutile e non vada studiata equivale a rifiutare la storia degli ultimi centocinquanta anni, tutta la filosofia del Novecento, e così via, né più né meno. Invitiamo chi ritiene che sia arte solo quella antica ad andare a lavoro con la biga e a scrivere sulle tabulae, per dimostrare, se non un po' d'intelligenza, almeno un minimo di coerenza. Critiche simili potevano essere comprensibili nel 1914, quando sulle pagine di Lacerba Papini deprecò la brutta piega presa dalle Avanguardie, che alla trasformazione lirica delle cose sostituivano le cose stesse; ma già allora il pittore futurista Umberto Boccioni gli fece notare il vizio di fondo della nostalgia passatista: i mezzi d'espressione cambiano perché è il mondo a cambiare, e l'arte si fa capofila nell'esplorazione di questi rivolgimenti. Che ancora si discuta, a distanza di un secolo, degli stessi argomenti è il segno inconfondibile di una cultura italiana - mica soltanto quella fiorentina, per carità - che non si è affatto evoluta, anche a causa di un'istruzione artistica nelle scuole che viene sempre più tagliuzzata e ridotta ai minimi termini. Almeno da chi si professa voce autorevole nel settore ci si aspetterebbe un minimo di accortezza, o quanto meno non un tentativo di disinformazione aggiuntiva.

In conclusione, se l'arte contemporanea richiede sinestesia e interattività, eccoci accontentati nella seconda parte della mostra, presso il Complesso di San Firenze, altro punto veramente a favore degli organizzatori, che qui centrano in pieno i bisogni della contemporaneità: all'interno di due stanze adiacenti ci troviamo immersi in un vortice di immagini, suoni, sensazioni persino tattili e olfattive. Di fatto, grazie al supporto di un gran numero di proiettori, ci viene data la possibilità di seguire Pollock all'interno dei suoi quadri, e poi dei suoi ambienti e delle stesse sue percezioni, in un'esperienza da gustare a lungo, abbandonandosi alla simultaneità delle diverse percezioni e all'esplosione della sua vitalità cromatica, auspicandosi magari di non trovare troppi frequentatori distratti.

 



[1]  Per le informazioni relative alla biografia di Pollock è stato consultato il volume di G. Cricco, F. P. Di Teodoro, 'Itinerario nell'arte', Zanichelli, 2006

[2] G. Cambon, 'La poesia di Michelangelo. Furia della figura', Einaudi, 1991

[3] "Uno spettatore senza che la natura dello spettacolo lo interessi veramente", M. Augé, 'Nonluoghi', Elèuthera, 1993, p. 80

[4] . Pasini, 'L'Informale', Clueb, 1995, p. 44

[5] : R. Barilli, 'Informale, oggetto, comportamento', vol. 1: 'La ricerca stilistica negli anni '50 e '60', Feltrinelli, 1979, e M. Calvesi, 'Le due avanguardie', vol. 2: 'Informale, New Dada, Pop Art', Laterza, 1971

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da Ravecca Massimo il 22/04/2014 20:04:08

    Ciò che caratterizza il genio è la presenza di processi ricorsivi nelle opere, anche in modo inconsapevole. Come il moltiplicarsi all’infinito dell’immagine di un oggetto posto tra due specchi piani paralleli. Pollock aveva elementi ricorsivi nelle sue opere, che hanno permesso di riconoscere i falsi che ne sono assenti. Ciò dovuto alla presenza in piccola scala di frattali nei suoi disegni che sono ricorsivi per definizione e per natura. In Michelangelo è presente direttamente il gioco di specchi.. Nella Cappella Sistina, nella Creazione dell’uomo, le mani del Padre toccano il futuro Figlio dell’uomo, e sono protese verso Adamo, in modo similare. Simili nella Caduta dell’uomo sono l’angelo e il serpente tentatore. L’angelo e il serpente sono speculari. Sembrano dei gemelli. Simili sono Aman crocifisso nella Volta della Cappella Sistina e il Gesù del Giudizio Universale sulla parete d’altare. Gesù morì sulla croce interpretando anche la parte di Aman in un carnevale ebraico? In tal senso il “non finito” di Michelangelo è associabile alla “non forma” di Pollock, perché entrambi frutto, o portatori di processi ricorsivi-speculari. Cfr. Ebook (amazon) di Ravecca Massimo: Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.

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