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Juliane

Rammento certo le belle passeggiate pomeridiane lungo l’argine, quando la primavera sboccia in magnifiche cascate di verde e di color flavo sui campi

Gli occhi chiari illuminano il suo volto, è ciò che noto mentre mi risponde sorridendo assieme al suo accento straniero. Sono le sette ed è tedesca

di Piccolo da Chioggia

Rammento certo le belle passeggiate pomeridiane lungo l’argine, quando la primavera sboccia in magnifiche cascate di verde e di color flavo sui campi

Giorgio de Chirico (1888 - 1978) "Isola di San Giorgio"

Rammento certo le belle passeggiate pomeridiane lungo l’argine, quando la primavera sboccia in magnifiche cascate di verde e di color flavo sui campi e, lontano, si tingono di blu e viola i picchi della Prealpe e sul declivio orientale dei colli Berici appare superba l’architettura della Rotonda che sta per abbracciare l’Aurora del dì prossimo. E rivedo anche i due rivoletti che costeggiano paralleli la casa della GIL e convergono in fuga prospettica verso oriente. Alti e verdi nella primavera fredda gli alberi di tiglio ornano le rive e, in cielo, continua al vento la rincorsa delle nubi grigie con le striature variopinte. Rosa e viola sul bruno e sul grigio e improvvisi squarci che si aprono nel blu più luminoso. Ma ieri ero un po’ male in arnese. Il pomeriggio era già arrivato alle tre e avevo voglia di cambiar clima. O cambiar passeggiata. Presi un treno per Venezia e vi arrivai che iniziava il passeggio delle dame in ghingheri. Mi spersi per delle calli periferiche senza meta dalle parti di Dorsoduro quando in un angolo sentii una voce di donna che cantava. 

Giro l’angolo e la giovane è lì che esercita per un esiguo pubblico improvvisato le sue arie liriche. Mi colpisce la scena perché pare proprio che la scelta del luogo sia stata studiata in modo da non vedersi accalcare la folla di turisti che preme per le calli che menano a Rialto e San Marco. Fra gli ascoltatori una bambina estasiata ascolta il canto. Ne approfitto e mi fermo anch’io sedendomi sugli scalini d’un uscio un po’ in disparte. Non ho fretta e, devo dire, la cantante mi incuriosisce. È una donna del tutto normale, leggermente più alta della media, con una bella chioma scura che risalta sull’incarnato roseo. Ero assorto nei miei pensieri quando mi accorgo che il pubblico era scemato mentre la cantante stava raccogliendo una sorta di zaino deposto al suolo. Mi avvicino e con fare disinvolto le chiedo l’ora. Effettivamente non porto mai con me nelle passeggiate l’orologio o peggio il cellulare. Mi intrigano, e chi vuole parlarmi deve trovar modo di chiamarmi in altre ore. Se perdo un treno attenderò il prossimo. Nella stamberga nessuno mi aspetta. 

Gli occhi chiari illuminano il suo volto, è ciò che noto mentre mi risponde sorridendo assieme al suo accento straniero. Sono le sette ed è tedesca. Attacco infatti a discorrere quando vedo che non ha fretta di rimettere il pacchetto con il telefono nello zaino. Scivolare nelle solite banalità discorsive mi deprime e allora le chiedo se non abbia mai cantato al suo pubblico improvvisato delle arie di Schubert o di qualche altro classico non così in voga. Lo faccio tanto per farle capire che un minimo di musica, almeno per sentito dire, la conosco e devo dire che la cosa le fa effetto perché è in pratica da lì che il ghiaccio si rompe.

È forse per una mezzora che ci culliamo nel chiacchericcio veneziano a quell’angolo dove ormai è solo qualche donna con le borse della spesa a passare, indaffarata ad approssimarsi a casa per la cena. La chiacchera è metà in tedesco e metà in italiano. Lei studia canto privatamente da un maestro in città, abita però oltre Mestre e viene a Venezia tutti i pomeriggi per esercitarsi a quest’angolo o ad un campiello limitrofo dove raccoglie pure qualche moneta dai passanti. Io quasi mi stupisco d’una storia così modesta, in fondo, ma rammento che nei paesi tedeschi esser musicante per strada non comporta alcuna lesione alla rispettabilità, soprattutto se si è studenti. A differenza di noi dove troppo spesso l’apparenza prevale e si verrebbe presi per miserabili. Ma lei, Juliane è il suo nome, ha saputo conquistarsi un piccolo nido di ascoltatori in questo sestiere e così prosegue il suo sogno. Di poter un giorno divenire una cantante di teatro.

È l’ora della cena e in questo pomeriggio con il dì allungato e le nubi che divengono isole blu tinte ai margini di rosa e arancio dalle irradiazioni del sole che cala è imperdonabile non farsi una passeggiata fino alla piazza d’acqua del San Marco. Glielo propongo e accetta. È anche l’occasione per domandarle se non abbia nessuno a casa che l’attende. Juliane mi racconta di avere un fidanzato che vede molto poco. Sta per diplomarsi in composizione e direzione d’orchestra a Monaco. Una volta che è sistemato, mi dice, si sposeranno. Le calli sono deserte, rintoccano solo i nostri passi, sulle finestre degli ultimi piani e sul rame delle grondaie si specchiano i raggi solari. Tutto sembra coprirsi d’un’aura di celeste e d’oro come nei mosaici bisantini. Ad ogni ponticello che dobbiamo transitare nel superare le canalette del sestiere io e Juliane ci fermiamo per guardare l’acqua verde e lenta che sbocca nella fuga nel canale più grande, poco lontano e increspato d’argento pel moto delle gondole e dei motoscafi.

La faccio ridere con i miei strambotti e le mie teorie musicali piuttosto sballate. Ma, che dire, in quest’armonia di sogno e di colori nella Venezia per un istante sgombra dai turisti tutto passa, anche la mia incompetenza musicale e la spiritosaggine maldestra. Nelle calli più grandi le vetrine dei ristoranti sono già illuminatissime, i menù si affastellano collocati sui trespoli come i messali del rito dell’ingurgito. Le sale sono piene dato che per la torma dei forestieri è questa l’ora della fame a tutte le latitudini. Noi proseguiamo girovagando e mi accorgo che, se non osserva i ristoranti, Juliane adocchia da brava tedesca le bettole. Nostalgia del vino si vede. Le racconto per farla ridere delle Schubertiadi dove scorreva del buon nettare offerto dall’immortale dei Lieder ai suoi sodali, ma mi rendo conto di non aver punta, dico punta voglia d’infrattarmi in qualche bettola ad affogar malinconie nel bicchiere. È ormai sera e il cielo sta prendendo quel color cobalto chiaro che annuncia la prossima accensione delle stelle. Non è buio e non è luce. È l’istante di sospensione fra due mondi, il dì e la notte. Il suo volto non è più rosa ma si fa dorato e argenteo al colore dell’aria, la sua camicia gialla è divenuta oro bruno e i pantaloni blu sono ora neri. Transito di colori, transito d’impressioni. La vedo triste infatti. Sorride ma è triste. Solitudine e frustrazione sembrano disegnarsi sui tratti del suo volto, il fidanzato lontano e il sogno di poter cantare in teatro come un miraggio forse ancora più lontano. 

È cascata abbastanza male. Ed io anche. Non posso offrirle alcuna alternativa. Né mi vanno le melanconie del vino. Sono quasi povero e campo alla meglio senza pensarci troppo. Per distrarmi mi invento passeggiate dove possa incontrare meno rumore e traffico possibile e possa gioire delle architetture e dei giardini. Difficile che ciò che mi basta sia attraente per una donna. Soprattutto se questa nutre delle ambizioni frustrate dalla realtà. Ma, in fondo, non accampo alcuna pretesa in tal senso. Prendo le redini in mano della nostra passeggiata e con la sicurezza del disinteresse le propongo di andarci a riposare su di un molo proteso nelle acque. Da filosofo improvvisato le dico che lo sciabordìo delle acque, il vento che scivola leggero sugli assi conciliano in modo esemplare l’oblio della malinconia. Si incuriosisce e mi accompagna di buon grado. 

Sono già accesi i fanali dei vaporetti e delle navicelle quando sbocchiamo, come un fiume che arriva al suo estuario, in una delle scenografie più belle del mondo. Davanti noi l’isola di San Giorgio Maggiore con la sua regale basilica. Sta riavviandosi il passeggio dei turisti serali in vena di romanticherie e di soste ai caffè della piazza San Marco e della Riva degli Schiavoni. Superiamo il ponte di Palazzo Ducale senza fermarci a veder quello dei sospiri. Arriviamo chiaccherando al ponte dell’Arsenale e, in vista delle luci tremolanti del Lido voltiamo indietro. Sarebbe bello, le dico, perdersi nelle calli di Sant’Elena ma non conosco bene il sestiere e trovare un molo per distendersi in quiete può durare a lungo. A ritroso, all’altezza dell’albergo Excelsior, di poco lontano dalla chiesa retta a suo tempo dal prete di chiome rosse, Antonio Vivaldi, individuo un bel molo che fa al caso nostro. Superata senza farne accorgere a qualcuno dell’albergo la catenella, ci inoltriamo sugli assi fino al fondo. D’intorno le gondole ormeggiate e coperte dai teli si dondolano lievemente alle onde e battono a rintocchi sul molo. Con i loro teli proteggono la nostra quiete alla vista dei passanti che difficilmente scorgeranno le nostre ombre di fantasmi notturni.

Chiaccheriamo ancora ma a cadenza molto più lenta. Lo spettacolo della riva illuminata, delle stelle, la facciata del San Giorgio nel vapore dorato dei riflettori a basso consumo, i fari rossi gialli verdi dei vaporetti che navigano sullo specchio d’acque interromperebbero a tratti qualsiasi conversazione. E noi seduti sugli assi in capo al pontile scambiamo così delle sole impressioni: “guarda la cupola, che bella....oh! un gabbiano solitario…ma che fa di sera?...guarda!...un vaporetto vuoto…che giostra di luci…senti? Fanno musica da ballo in quella casa, che sia una festa di fine corso?... L’aria è ora piuttosto fresca e Juliane pesca dallo zaino un pullover per indossarlo, poi aggiusta lo zaino a cuscino e si distende poggiandovi la bella chioma. Una metà del cuscino è lasciata sgombra, e dopo qualche minuto anch’io mi stendo.  

È poco prima delle ventitrè quando ci risvegliamo al vociare chiassoso d’un gruppo di stranieri che facilmente avevano intinto i loro itinerari veneziani entro calici abbondanti di vino. L’aria si è fatta ora più fresca, ma se gli occhi restano abbacinati dalla festa discreta delle luci che tremolano riflesse sulle acque increspate ed il San Giorgio veglia semiaddormentato, per me e per Juliane è tempo di lasciare questo incanto e prender l’avvio verso la stazione. Passate le prime calli intorno San Marco, deserte di passanti e costellate di vetrine ancora accese, dai pressi del Rialto, pel sestiere che dobbiamo attraversare si vede un inizio di vita notturna, passiamo il ponte e ai Frari già siamo in piena atmosfera di spassi lagunari. Torme di studenti e di beoni si affastellano sulle soglie delle osterie col calice in mano per ciàcolar e inventarsi qualche burla. Giovani donne che suppongo fossero arrivate in ghingheri hanno gli abiti già stiracchiati per la calca subìta attorno ai banconi nell’ordinare l’ombra di vino serale e foriera di allegria. Più in là di qualche passo leggiamo ridendo un lindo cartellino appeso su di un uscio da una qualche dama d’altri tempi che prega studenti e passanti di non lasciare scarti di vivande sul muretto antistante l’osteria. Pena l’arrivo di gabbiani mattutini e ratti notturni che lì consumerebbero un troppo facile pasto. Procedendo senza troppo seguire i cartelli che segnano “verso la ferrovia”, dato che l’orientamento lungo le piccole calli parallele e tortuose alla via indicata e costellate di bettole gioiose porta lo stesso a sbucare nei pressi della stazione, noto che Juliane si è lasciata alle spalle la malinconia e ora è sorridente e mi racconta di quando era fanciulla nella sua piccola città adagiata sulle colline fra Baviera e Franconia.

Alla stazione faccio per salutarla. Lei deve andare verso il capolinea delle corriere mentre io devo prendere un treno. Mi siedo per un attimo su di un muretto e Juliane rimasta in piedi di colpo mi dice “sai, ora potrei anche darti un gran bacio! Un vero bacio appassionato!” Io sorrido e affettuosamente la saluto con un “Auf Wiedersehen!”. Il treno è fra qualche minuto e la via ferrata che mi porta nella stamberga è sguarnita di traffico delle ore piccole. Allontanandomi mi volto per un attimo, la vedo che cammina salvo voltarsi pure lei per un istante e guardarmi irritata. Da lontano noto che ha una figura armoniosa. Arrivo a casa che è piena notte. Dalla stazione alla stamberga sono di nuovo impressionato per la bellezza di questa notte di primavera. Dappertutto è la coltre d’oro del lume che i lampioni gettano sugl’intonaci chiari delle case ed il blu oscurissimo e luminoso del cielo.




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