Al cinema con Michele

ACAB, la solitudine dei celerini

Bello e ben fatto il film di Sollima, ma forse bisogna riflettere su quel che manca

di Michele  Cucuzza

ACAB, la solitudine dei celerini

Almeno un tema di discussione lo pone “ACAB”,  il film di Stefano Sollima sui celerini, tratto dal libro di Carlo Bonini, che - come molte pellicole italiane - benché ben girato, ottimamente interpretato (Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Domenico Diele), con un gran senso del ritmo, scene sugli scontri ben riuscite, ha il limite fondamentale di 'parlare' dei poliziotti con i manganelli, invece di raccontare una storia con  protagonisti quegli agenti.

Il problema che dunque solleva, a mio avviso, è quello del significato della 'fratellanza' che - nel film -  lega ossessivamente i poliziotti tra loro, nella buona e nella cattiva condotta (assistiamo naturalmente anche a quella, con alcune 'spedizioni punitive' vietate, conseguente distacco dalla legalità di alcuni agenti, giusta punizione e inevitabile sospensione dal servizio).

Cobra, Negro, Mazinga e le altre ‘guardie’ (come si dice con irriverenza a Roma) sono legate fra loro da un rapporto solidale di complicità, che non nasce solo dal fatto che condividono situazioni pericolose e violente.

La fratellanza è la garanzia certa, il dovere primo di un celerino verso i suoi compagni, quando la violenza la subisce e quando la  somministra, quando commette quello che i colleghi giudicano un errore, quando le vicende private interferiscono con il servizio, sempre. Non è semplice colleganza e va oltre l' amicizia, chiarisce Favino, la ‘nostra è fratellanza’.

Non a caso, si ritrovano tutti insieme, agenti in servizio e poliziotti sospesi, pronti all'ultima battaglia contro gli ultras, indossando i caschi e brandendo gli scudi, nei tesisssimi, efficaci  momenti conclusivi, volutamente interrotti a metà.

I celerini di ACAB parlano di fratellanza come ne parlerebbe una comunità chiusa, un’associazione segreta,  perché sono  (o tali si sentono) soli, isolati dal resto del paese, dai cittadini normali e dalle istituzioni. Per non parlare, naturalmente, dei loro avversari consueti, dagli ultras dell’Olimpico ai clandestini sospettati di gravi reati.

Al di là degli inevitabili riferimenti a drammatici fatti reali (la caserma Diaz a Genova, la morte di Giorgio Sandri, l’ispettore capo Filippo Raciti ucciso dagli hooligan a Catania), il problema è un altro: perché un corpo di polizia, un apparato dello Stato vive in un tale isolamento, malgrado il suo impiego continuo e necessario da parte dello stato?

Forse la questione va posta a tutti noi, in termini chiari, elementari: i celerini (in questo caso, quelli di Sollima, ma probabilmente non solo loro), non possono continuare a essere ignorati, forse considerati poliziotti di serie B, esclusi – per il lavoro non da ‘CSI’ o da ‘Law and order’ che hanno da fare - dalla considerazione, dalla riconoscenza,  persino dal casuale amichevole incontro – come invece avviene con quasi tutti gli altri operatori  delle forze dell’ordine -  da parte  dell’opinione pubblica comune, quella che non andrà mai allo stadio o che non vuol sapere nulla della dura esperienza quotidiana del servizio di sicurezza nelle periferie metropolitane.

Nessuna zona delle moderne istituzioni democratiche, neanche quella dei reparti di pronto intervento, sembra dirci ‘ACAB’,  può  rimanere fuori dal controllo, dalla verifica ma anche dalla consapevolezza positiva, dalla gratitudine, dalla consuetudine cordiale del cittadino che esige la legalità e riconosce meriti e difficoltà di chi a questo scopo lavora, pena il radicarsi di inammissibili rapporti di ‘fratellanza’, pericolosi e omertosi, tra servitori dello stato.

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