La commedia scritta da Goldoni

Un Campiello, tra sorriso e nostalgia, del compositore Wolf-Ferrari

Domani 25 settembre alle 20,30 si apre la stagione autunnale dell’opera di Firenze

di Domenico Del Nero

Un Campiello, tra sorriso e nostalgia, del compositore Wolf-Ferrari

Una scena de Il Campiello

Una scena su cui il tempo scorre insieme alle note.  Domani 25 settembre alle 20,30 la stagione autunnale dell’opera di Firenze si apre con un titolo del tutto inusitato: Il Campiello, del compositore veneziano Ermanno Wolf-Ferrari (1876-1948), di padre tedesco e madre veneziana.   La scena del primo atto sarà ambientata nel 1756, anno della prima rappresentazione della commedia scritta da Carlo Goldoni; il secondo nel 1936, anno in cui il compositore la rappresentò per la prima volta  alla Scala; il terzo ai giorni nostri. Solo lo sfondo – ovviamente – rimane lo stesso: un “campiello”, ovvero una piazzetta veneziana, ricostruita  nello spirito anche se non con precisione topografica: vari palazzi veneziani formano un angolo di questa città unica al mondo, grande amore sia del grande commediografo  settecentesco che del compositore novecentesco, che ebbero tra l’altro in comune il curioso destino di non essere sempre apprezzati nel giusto modo nella propria patria.  Una scelta davvero felice, quella del teatro fiorentino, che consentirà di ascoltare un’opera tanto poco nota quanto di grande interesse e bellezza artistica.

 Poco  noto al grande pubblico italiano, Wolf-Ferrari rappresenta invece una voce importante nel panorama novecentesco, di solito “monopolizzato” tra giovane scuola verista, Puccini e avanguardie. Panorama tra l’altro anche questo molto più complesso e meno “monolitico” di quanto non sembri, perché né Puccini, né Mascagni né Giordano sdegnarono il comico. Ma alla radice di tutto c’è l’opera che Wolf- Ferrari amava moltissimo e considerava – giustamente – come una rivelazione: quel Falstaff che vide per la prima volta nel 1895 in una posizione davvero privilegiata,  al teatro dal Verme di Milano ospite nel palco di Arrigo Boito. Falstaff  non fu solo il grande capolavoro comico con cui il maestro di Busseto dette il suo addio alla scena, ma impostò anche un rapporto del tutto nuovo tra strumentale e vocalità. A parte questo, fu una ripresa di un genere che dopo la risata rossiniana e il sorriso di Donizetti non si era mai del tutto spento, ma certo aveva ceduto il passo alle grandi passioni e al dramma a tinte forti del Romanticismo e del Decadentismo.

Certo la comicità del Falstaff, che pure grazie alla perfetta osmosi tra il genio poetico (e musicale) di Boito e quello di Verdi  tocca vertici inarrivabili, è venata da un tocco di malinconia, quasi i due artisti abbiano saputo e voluto cogliere nel modello di Shakespeare quel riflesso della fine di un mondo, quello appunto della cavalleria medievale. E proprio questa pensosa comicità si ritrova anche nel capolavoro comico di Pietro Mascagni, quelle Maschere (1901)  con cui il compositore, su un testo in verità non proprio eccelso di Luigi Illica, volle richiamare in vita la commedia dell’arte: un’opera di primo Novecento con una orchestrazione e una grazia settecentesche e rossiniane.   

Sicuramente l’esperimento della Maschere contribuì a spingere Wolf Ferrari verso l’amatissimo Goldoni. Il compositore veneziano vide tra l’altro giustamente troppa astrattezza nel libretto di Illica; egli pensava  che le Maschere “volendo riportarle in vita, bisognasse rifarsi a lavori del tempo in cui erano vive davvero.”[1]

Dalla maschere della commedia dell’arte alla commedia goldoniana – che pure era stata senza dubbio il totale superamento della prima – il passo era breve: “ Goldoni! L’ho amato sempre – racconterà il musicista proprio alla vigilia del Campiello – l’ho amato sin da bambino (…) i personaggi di Goldoni – le care maschere, Arlecchino, Pantalone, i bei cavalieri e la care dame – me li portavo dietro, a casa,  nella mia fantasia di fanciullo …”

La prima opera su testo  tratto da Goldoni  fu così Le donne curiose, rappresentata a Monaco di Baviera nel 1903: il teatro di  questo musicista è stato molto più amato in ambito tedesco che non italiano.  Seguirono, due anni dopo, sempre a Monaco, I quattro rusteghi.  Nel 1931 a Roma fu il turno della Vedova Scaltra, e infine nel 1936 il Campiello; ma perfettamente “goldoniane” nello spirito sono il delizioso intermezzo  Il segreto di Susanna,( Monaco  1909)  il cui testo potrebbe davvero essere opera di un Goldoni del XX secolo, improntata sulla gelosia di un marito e su una …. sigaretta galeotta; e l’Amore Medico  (Dresda 1913)

L’ispirazione musicale di Wolf - Ferrari parte da Mozart per arrivare a Rossini e al Verdi del  Falstaff. C’è chi gli ha rimproverato una cerca superficialità, ma quel che è certo è che nell’epoca in cui il cosiddetto “verismo musicale” sembrava regnare incontrastato e poi nel periodo degli esprimenti, interessanti ma forse un po’ intellettualistici, della “generazione dell’80”Wolf – Ferrari riuscì a ridar  nuova vita a un genere teatrale che sembrava ormai confinato a un repertorio antico.

Già nel testo goldoniano, il Campiello  è opera popolaresca e corale, caratteri che mantiene perfettamente nella rielaborazione di Mario Ghisalberti, drammaturgo con il quale la collaborazione diviene continua negli ultimi dieci anni di vita del compositore (suoi i testi della Dama Boba da Lope de Vega, 1937, e degli Dei a Tebe da Ludwig Strecker, 1943).  Nell’opera musicale, il recitativo si modella spontaneamente sul ritmo della parlata dialettale  (solo due personaggi si esprimono in italiano) mentre la partitura oscilla tra trovate umoristiche, felici parodie e una sottile malinconia. Due parti femminili  (dona Cate e dona Pasqua) sono affidate a due interpreti maschili, secondo una tradizione comica che risale al tempo di Goldoni stesso.


La realizzazione fiorentina  -  un nuovo allestimento in coproduzione con  la Fondazione Teatro Verdi di Trieste -  porta la firma di Leo Muscato nella regia, scene di Tiziano Santi e costumi di Silvia Aymonino. Ciascuno dei tre atti è ambientato in un periodo diverso, in quanto: “ Cambiano gli usi e i costumi, ma i personaggi conservano gli stessi caratteri tratteggiati da Goldoni. Perché possono cambiare le epoche, le mode, le culture, ma non cambiano i sentimenti di fondo e le urgenze primarie degli esseri umani. “ [2]  Sul podio il maestro Francesco Cilluffo. Personaggi e interpreti:   Gasparina Alessandra Marianelli; Lucieta Diana Mian;  Gnese Barbara Bargnesi; Zorzeto Alessandro Scotto di Luzio; Orsola Patrizia Orciani; Donna Cate Cristiano Olivieri;  Donna Pasqua Luca Canonici; Anzoleto Filippo Morace; Cavalier Astolfi Clemente Antonio Daliotti;  Fabrizio dei Ritorti Luca Dall’Amico.

 Repliche il 28 settembre (ore 15,30), 30 settembre, 2,4 ottobre ore 20,30. Un appuntamento davvero unico, da non mancare.

 

 

Trama dell’opera:[3]

Atto primo. In un campiello veneziano vivono varie persone: Gasparina con lo zio Fabrizio; due vedove bramose di nuovo marito e madri di belle figlie da marito, la sdentata Cate Panciana, con Lucieta, e la sorda Pasqua Polegana, con Gnese; e Orsola, venditrice di frittelle, col figlio Zorzeto. Fra le case del campiello c’è una locanda, dove da poco alloggia il napoletano cavalier Astolfi, senza una lira ma amante della bella vita: gli piace Gasparina che, vanitosa com’è (‘caricata’ ovvero affettata, tanto da usare la ‘z’ al posto della ‘s’), sta al gioco della sua corte; e gli piacciono, al contempo, Lucieta e Gnese. Ma queste al gioco non stanno, innamorate come sono Lucieta (gelosa di Gnese) del merciaio Anzoleto (geloso di Zorzeto) che sta per sposare; e Gnese di Zorzeto, col quale ha avuto il permesso di fidanzarsi da Orsola: ma per il matrimonio c’è tempo. A Lucieta il cavalier Astolfi offre un anello che ella, sdegnata, rifiuta: lo prende per lei sua madre Cate mentre il cavaliere si concentra sulla benevolente e leziosa Gasparina.

Atto secondo. Mentre Fabrizio si lamenta del chiasso nel campiello, Astolfi invita a pranzo tutti quanti. La sdegnosa Gasparina, che non si vuol mischiare col popolino, rifiuta; ma l’occasione è buona lo stesso per il cavaliere, che può parlare al termine del convito con Fabrizio, chiedendogli in sposa la nipote. Fabrizio, napoletano pure lui, sa di che consistenza sia la condizione del cavaliere, ma non vede l’ora che Gasparina se ne vada di casa, e asseconda il progetto matrimoniale. Così Astolfi e Gasparina possono parlare un po’, giusto prima che, a forza di vino, si passi da un inizio di lite a un ballo generale.

Atto terzo. Sempre più irritato dal gran chiasso del campiello, Fabrizio sta trasferendosi, ma ancora può invitare a casa Astolfi. Crucciato è Anzoleto, perché Lucieta è andata a casa di Orsola e Zorzeto: la aspetta e, quando esce, le dà uno schiaffo. Poi si riconcilia con l’amata per intervento di Cate, e quindi di nuovo si irrita vedendo passare Zorzeto, che insulta. Questi risponde a sassate: il campiello diventa tutto una rissa. Ma Astolfi interviene pacificatore e invita tutti un’altra volta, stavolta a cena. A tavola tutto si riappacifica; e il cavaliere annuncia che sta per sposarsi con Gasparina, con la quale se ne andrà da Venezia. Gasparina, commossa, saluta la sua città e il campiello dov’è vissuta (“Bondì Venezia cara”).

 

 

 



[1] Fonti per questa e altre citazioni del compositore: Mario MORINI, “ Il campiello di un goldoniano per disperazione” in

Ermanno WOLF-FERRARI, Il campiello, Milano, Ricordi, (1992?)  pp. 8-13 (libretto allegato al cd dell’opera). 

[3] Fonte: http://www.operamanager.it/cgi-bin/process.cgi?azione=ricerca&tipo=OP&id=11088

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