«Rigo di sangue»

Firenze: una Cavalleria in piena regola

Sicuramente Mascagni non pensava alla mafia componendo Cavalleria, ma certo sentiva con forza il rapporto tra i personaggi e l’ambiente

di Domenico Del Nero

Firenze: una Cavalleria  in piena regola

Una partitura che termina con un “rigo di sangue”. Definizione forte, ma azzeccata,  per quanto riguarda il primo – e non unico – capolavoro di Pietro Mascagni in scena dal 23 ottobre all’opera di Firenze insieme a La luce nel tempo,  un nuovo balletto con coreografia, scene e costumi di Francesco Nappa, musiche di Franz Joseph Haydn interpretato da  Maggiodanza.

Cavalleria è sicuramente un’opera di grande presa ed effetto, apparentemente facile da rappresentare ma estremamente difficile da rendere in tutte le sue sfumature. Sia o meno l’atto di nascita del cosiddetto “verismo  musicale” o dell’ancor più cosiddetta “Giovine Scuola ”; manchi o meno, come affermano i soliti soloni impegnati per principio,  di uno “scavo nel sociale”, quel che è certo che i due librettisti e amici del giovane e ancor sconosciuto maestrino livornese, Guido Menasci e Giovanni Targioni Tozzetti, hanno saputo perfettamente cogliere l’essenza del dramma del grande scrittore siciliano: un “fatto diverso” per usare la curiosa espressione di Verga, che l’autore stesso raccolse per le vie e le piazzette della sua isola. Del resto, chi si reca a Vizzini può ancora ammirare il luogo, con i suoi fichidindia, in cui è avvenuto – così assicurano – il duello fatale.

L’edizione di Firenze, replica di una precedente messa in scena del 2008, è soprattutto questo:  il regista Mario Pontiggia, grazie anche alle scene e ai costumi di Francesco Zito, ricostruisce una Sicilia non oleografica, ma che oltre alla bellezza della natura e ai ritmi ancestrali della sua gente conosce anche la forza devastante delle passioni.   “in questa produzione nata per il Teatro del maggio Musicale fiorentino nel 2008 (…) con Francesco Zito abbiamo cercato di focalizzare l’attenzione sui personaggi e non tanto sul contesto folk siciliano  (…) la forte presenza della Chiesa è stata voluta da noi come punto di riferimento  della vita sociale del paese, dei suoi pettegolezzi, della sua omertà” – dichiara il regista.

Sicuramente Mascagni non pensava alla mafia componendo Cavalleria, ma certo sentiva  con forza il rapporto tra i personaggi e l’ambiente. Lo prova anche la musica stessa: il fatto che ad esempio, subito dopo i corali toni festosi del giorno di Pasqua serpeggi forse il più importante tra i leit –motive dell’opera, quello della gelosia, viene a stabilire un forte e stridente contrasto tra una serenità che si rivela solo apparente e una cupa violenza di sentimenti che scoppia in tutta la sua virulenza nel grande duetto tra Santuzza e Turiddu.  Il compositore del resto chiedendo dapprima al solo Targioni Tozzetti “ un libretto strettamente attaccato all’azione del Verga, aggiungendovi semplicemente qualche brano lirico per vestire la nudità della tragica vicenda”  si rivela molto vicino a quel teatro, soprattutto tedesco, che utilizza al posto del classico libretto un testo teatrale preesistente – in questo caso, solo da pochissimi anni.

L’edizione di Firenze rende tutto ciò?  Sembra decisamente di sì.  Se il regista si è soprattutto concentrato sulle tre figure femminili, nondimeno ha perfettamente dimostrato di saper cogliere sia la dimensione corale sia  quella che Alberto Paloscia ha definito “l’ascendenza eschilea” dell’opera mascagnana: all’interno di una festa mistica e sensuale si consuma il sacrificio di Turiddu ma anche di Santuzza, in un clima davvero degno della “civiltà di colpa”. Merito del regista, certo, che ha saputo cogliere questa dimensione  con una “lentezza” scenica, quasi staticità, che però non è mai monotona; ma anche della splendida prestazione del coro guidato da Lorenzo Fratini e che ha veramente assunto, per certi aspetti, una dimensione e una caratura da tragedia greca.

Per quanto concerne i cantanti, è noto come all’apparizione di Cavalleria impressionò soprattutto la vena di canto nuova e personale, caratterizzata da una irruente spontaneità, con le voci sospinte verso il registro acuto, che veniva raggiunto con uno slancio che portava al confine con il grido. Il Turiddu del tenore Sergio Escobar, dotato di voce forte e vigorosa, di grande intensità e che negli acuti tende però un po’ troppo  all’urlato ha reso dunque piuttosto bene questo ruolo  sicuramente molto impegnativo, sia sotto il piano vocale che della recitazione.  Il ruolo di Santuzza è attribuito nella partitura a un soprano, ma essendo un soprano drammatico a tessitura piuttosto bassa viene frequentemente interpretata da mezzosoprani come appunto Lucia d’Intino, cantante di grande spessore che però, soprattutto nel declamato, non è apparsa sempre a suo agio. Nel complesso la prova è stata comunque più che positiva: un personaggio  ferito e pieno di dignità, distaccato  ma non certo freddo.  Il compare Alfio del baritono Lucio Gallo, cantante con un repertorio che spazia da Rossini a Wagner a Giordano, almeno in alcune recite non è apparso in forma particolare, con un fraseggio sempre più secco e prosciugato.  Discrete le due figure femminili minori, la Lola di Martina Belli e Mamma Lucia di Cristina Melis.

Molto ben calibrata la direzione di Giampaolo Bisanti, soprattutto nella scelta dei tempi che fa fatto sì che l’opera scorresse senza fratture o interruzioni: lento e solenne come del resto voleva lo stesso Mascagni  (che alla prima dell’opera si inimicò il celebre direttore Leopoldo Mugnone con un “maestro, io qui rallenterei”) nel preludio e nelle scene corali, ma capace quando necessario di animare l’orchestra con slanci e impennate, come nel brindisi che precede il finale. Un complesso quello del Maggio, sempre all’altezza della sua fama.

Ultima replica domenica 2 novembre. Decisamente da vedere.

 

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