a realtà si sfuma a suo agio in varie tinte

Pittori sui ponti e giardini e monumenti sulle rive

Ero entrato un dì nello studiolo che crea il pittoresco nel pittoresco per chiedere un lume all’artista

di Piccolo da Chioggia

Pittori sui ponti e giardini e monumenti sulle rive

Pittori sui ponti

Credere che la bella Padova, nella quale ci si tuffa una volta arrivati per immergerci nel suo secolare sapere con la foga dell’assetato che dopo un lungo cammino si getta nelle chiare acque della fonte, come racconta il grande Sheakspeare, possa albergare una vita artistica qual quella che si vive in Parigi o Monaco è davvero troppo. Ogni cosa ha il suo tempo e passato che fu lo splendore dell’ospitalità data a Giotto, passate quasi inosservate la fanciullezza di Mantegna e la puerizia di Palladio, i due Andrea che oggi muovono biblioteche di volumi di studi sulla loro arte, rimane ora, in quest’inclita villa, l’Università sola soletta.  Questa ha certo le sue aule, il suo elegante rettorato, un Liviano magnifico, a lato del quale un burlesco Ruzzante veglia sorridente, ma non può ispirare il genio figurativo o quello poetico che mal si costringono sui ponderosi tomi e preferiscono volare nell’aria a loro arbitrio come i più felici degli uccelli pur costretti alla durissima disciplina dell’invenzione.


La realtà si sfuma a suo agio in varie tinte. Avevo frequentato qualche tempo addietro la biblioteca degli ingegneri per tentare di farmi un po’ di lume sull’aerodinamica che da sempre è una disciplina della fisica applicata che mi attrae. Sfogliavo prima con attenzione ma poi alquanto distrattamente pel sopraggiungere di ardue complicazioni matematiche un volume di Bruno Eck, in tedesco, dove alla fine mi concentravo più a rammentare le figure che non a capirne le formule, irte queste, sempre, di segni d’integrale o di derivate parziali. Esaurita in breve la concentrazione su questo testo mi davo d’ordinario a più lievi passeggiate e finivo per costeggiare le riviere dove lì, almeno, avrei potuto osservare in quiete vinciana i moti della lenta corrente del Bacchiglione. E una stazione adatta a questo studio è dove le acque del fiume si mutano in vortici e spumeggiano precipitando lungo una cascatella sotto il ponte che transita appena usciti dalla via Speroni sulla riva Paleocapa. Una riviera dedicata, appunto per restare in argomento, al grande idraulico bergamasco della Serenissima.


Sull’angolo destro rispetto al moto delle acque, e poggiata a valle del parapetto in pietra del ponte, sta una graziosa casetta che sembra uscita da una cartolina che debba ritrarre ostentatamente un angolo pittoresco. Minuscola, con le finestre richiuse da imposte brune e il tetto a due falde piuttosto spioventi, la costruzione ha, oltre al piano al livello del ciottolato che pavimenta il ponte, due piani superiori. Il soffitto di questi è comunque assai modesto, come avviene nelle piccole case veneziane o chioggiotte, perché la gronda del tetto pare quasi la si possa toccare con mano. La casetta alberga proprio sulla facciata, che dopo qualche passo si muta di colpo nel parapetto del ponte, una porta a vetri, la quale lasciava intravedere fino a qualche tempo addietro lo studio d’un pittore alquanto originale. Per entrarvi v’erano un paio di scalini da scendere e sul lindo pavimento in cotto, appoggiate alle pareti, si vedevano delle tele a vivi colori raffiguranti gruppi di case bianche come arroccate in paeselli di fantasia. Sullo sfondo sempre il mare e cieli d’un blu che ben contrasta col candore delle case. Mi incuriosiva il cipiglio piuttosto altero del pittore che scorgevo sempre operoso in questo studiolo il cui lindore era piuttosto inusuale per l’attesa che si ha in un artista, condannato dall’opinione comune al cliché alquanto banale del bohémien. Informandomi presso qualche passante venivo a sapere che l’altero signore con i pennelli era un ex ufficiale dell’esercito che diveniva in seguito impiegato di banca per mutarsi in pittore fantasioso dopo un secondo e salutare congedo. 


Ero entrato un dì nello studiolo che crea il pittoresco nel pittoresco per chiedere un lume all’artista. Gli esibivo infatti dei disegni che avevo schizzato qua e là su fogli volanti e di argomento vario. Un’insenatura con delle navi a vela all’ormeggio, copiate verosimilmente da un disegno fiammingo. Delle viste di scorci architettonici che forse avrebbero potuto tramutarsi in quadretti ad olio. Il pittore già ufficiale rimirò i fogli ma credo li abbia reputati più un albergo di scarabocchi che non l’indizio d’un opera promettente. E infatti con cortesia rude, da soldato, non mi nascose la sua perplessità di fronte a queste prove. Aveva ragione e non me la presi. Pur avendo capito che la pittura non può che essere, per me, altra cosa oltre un semplice passatempo cui nulla chieder in più, devo dire che quegli scarabocchi erano male scelti e ancora immaturi. Non avevo ancora dato al mio tratto la nonchalance che trasforma lo scarabocchio in una vista gradevole come avviene per gli schizzi dei bravi architetti né essi avevano l’ingenuità della vignetta che nessuna pretesa ha di valore figurativo ma solo deve illustrare una verità poetica. 


Dal ponte della casetta vado per la riva lungo il sentiero in ghiaino che costeggia un muretto e arrivo al ponte in ferro dell’Osservatorio e della fu Accademia Delia, la scuola di equitazione il cui fabbricato lascia luogo oggi ad uno spiazzo erboso con alcuni alberi e delle panchine di pietra. Un tempo vi era, a pochi passi dall’uscita del ponte con la casetta del pittore, una caserma di cavalleria. Nata troppo tardi immagino, dato che già con la guerra del 1870 fra Napoleone III e Bismarck la disciplina dei tiratori con i nuovi fucili ad ago poteva aver ragione delle coraggiose cariche degli squadroni a cavallo. Con l’invenzione della mitragliatrice e, in seguito, dei mezzi semoventi e blindati restava al cavaliere solo una bella uniforme ed il legittimo orgoglio di appartenere ad un corpo d’élite. La cui utilità non andava oltre lo spettacolo da esibire in una parata fra l’entusiasmo dei fanciulli e gli sguardi ammirati delle giovani donne. Naturale in ogni caso che la caserma padovana di riviera Paleocapa dovesse avere nei pressi una scuola di equitazione. Della quale oggi, a parte qualche interessante fotografia degli anni 90 dell’ottocento, divenuta pure una gradevole cromolitografia, nulla resta se non il nome dato allo spiazzo erboso. Non mi è ancora stato possibile conoscere se questa scuola di equitazione fosse stata fondata avanti il 1866 e fosse quindi stata in servizio nella Padova dell’Asburgo. Con la qual cosa aumenterebbe senza dubbio il mio interesse per la storia del minuscolo luogo.  Sapere che dalla riva sulla quale vado spesso a passeggiare uscivano in fretta ansiosa i cavalieri con la giubba bianca dell’arciduca Alberto che pure vittoriosi a Custozza dovevano cercar di tamponare la rovinosa sconfitta di Königgrätz, subita dalle possenti armate prussiane, accresce il senso storico del grande spazio europeo in questo cantuccio del Veneto bibliotecario e sonnolento.


Ma divagando più in là nel tempo, e però a ritroso e di molto, la scuola equina mi appare come il dovuto omaggio in Patavium, “l’imbibita d’acque”, ai Veneti antichi della Santa Rezia, eccellenti allevatori di cavalli, i quali lasciano fra i pochi residui scritti della loro lingua e un patrimonio archeologico di prim’ordine per bellezza e antichità, un nome proprio assai gradevole al suono: Ekupetaris. Eku essendo il cavallo e petaris, il volante, ovvero “quei che vola sul cavallo”, se uso con un po’ di senno i rudimenti di linguistica indeuropea letti sulla vetusta enciclopedia Treccani e su di un libro egregio delle padovane Edizioni di Ar. Non dubito che si possa rintracciare in una qualche polverosa e diserta biblioteca degli istituti di filologia classica dell’Università una bella edizione del “Trattato dell’equitazione” di Senofonte. Resta da vedere, per comprendere come era l’arte di cavalcare in tempi antichi, se il bel volume non abbia a corredo delle chiare illustrazioni eseguite con mano d’artiere a penna. Un poco come è per i trattati di Andrea Vesalio che pure in questa Università albergò per qualche tempo. 


Accadeva verso febbraio o marzo che passando per la riva all’imbrunire vedessi poggiate, ma non abbandonate, sulla balaustra del ponte metallico che conduce alla piazzetta dell’abbattuta scuola di equitazione un paio di tele dipinte. Nessuna impressione rammento di esse se non che trovavo dilettevole che un solitario pittore, passato il pomeriggio spennellando una qualche vista del panorama, angusto per via del possente bastione carrarese che sorge dirimpetto e da tempo viene pomposamente usato come istituto universitario e osservatorio astronomico, si allontanasse, come raccontatomi da un passante, per andare in un’osteria della piazzetta dell’accademia Delia a rincuorarsi con un bicchiere di cordiale. 


Il bastione carrarese sbarra ogni vista per una bella fetta di gradi da nord a est ma il panorama risulta egualmente aggraziato dal fiume che proprio a valle del ponte in ferro forma un laghetto dal quale esce verso oriente un canale su cui transita un ponticello che pare antico e sfoggia il classico prospetto a dorso gobbo. Questo ponticello conduce ad una coppia di cancellate le quali delimitano l’areale della fortezza. Dal cancello più a settentrione si entra in uno spiazzo a ghiaino arginato a sinistra da una casetta che affonda le fondamenta quasi nell’acqua del tratto principale del fiume ed è contigua alla bertesca rotonda che sparte, sul laghetto le acque fra fiume e canale; a destra da un muro su cui crescono erbe rampicanti e si poggiano arbusti di rose. In primavera quasi una visione di piccolo giardino arcadico, dato che a pochi passi ancora un altro ponticello, ora addirittura levatoio, transita direttamente ad una porta del castello, mentre un camminamento in legno che si parte dalla ruota che solleva il ponte aggira l’angolo delle mura ben finestrate d’una costruzione a ridosso della fortezza vera e propria e costeggia la parete occidentale di questa casa che fa da riva al fiume. Arbusti e piccoli salici gettano foglie e ombra sulla balaustra del camminamento.

 

Dall’altra cancellata, quella più ad oriente si accede ad un giardino antistante la parte robusta del castello, sovrastata da una torre nominata “dell’Osservatorio” già nelle cromolitografie dell’ultimo ottocento. Alberelli forse da frutto e alberi e prato e vialetti in ghiaia creano quel gradevole contrasto, quella composizione d’una rude elementarità dell’architettura medievale con un giardino curato quasi alla settecentesca, una mistione armoniosa di stili effettuata senza studio e con la spontaneità d’un buon gusto temprato dalle generazioni, che rende certi angoli d’Italia, fra i quali questo, inarrivabili per semplicità e bellezza. Sull’arco d’ingresso al bastione, una lapide posta nel maggio del 1944 con l’indicazione del numero romano XXII rammenta l’avvenuto bombardamento aereo sulla località e la sovranità fascista repubblicana.  


A giugno ritrovavo le tele poggiate sulla balaustra e le potevo guardare con attenzione. Con il dì allungato e con l’ora legale la passeggiata tardo pomeridiana si svolge ancora alla luce del sole. Una composizione astratta, una natura morta con girasoli e il panorama visibile da quel luogo preciso, con il bastione, la torre, la bertesca cilindrica, gli alberi, il laghetto e il ponticello a dorso gobbo. Come il solito il pittore non c’era. Tutti i quadri con amplissime dimensioni e robusti spessori, rettangoli e quadrati da un metro e mezzo e oltre. La perplessità del pittore già ufficiale dell’esercito di fronte ai miei scarabocchi la ereditavo io nell’osservare la tela con il motivo astratto. Altrettanto avveniva per i girasoli che proprio non mi impressionavano. Bello invece, davvero bello il quadro con il panorama della località, dominato da un cielo rosso vivo e animato dalle acque e dagli alberi che nello stile assai originale del pittore erano resi da macchie celesti e verde acqua per le foglie e strisce bianche, verde blu arancio per l’acqua. Se dovessi esplicitare una qualche affinità dell’autore di questa tela con un maestro del passato potrei nominare il francese André Derain nelle sue viste di porti o città con fiumi.


Ad un tratto una voce mi dice che volendo posso toccare la tela perché i colori si sono già rappresi, dato che stavo esaminando da vicinissimo il quadro. Mi voltavo e finalmente potevo associare un volto ed una figura al pittore. Alto, di chioma candida seppur giovane, robusto. Con un viso aperto e lo sguardo intelligente che ispira immediata simpatia. Scambiavo una breve conversazione. Romeno di nascita, abita da tempo in Italia, e non a Padova dove viene una volta circa al mese per rivedere, nella città dove ha passato vari anni, i suoi conoscenti e i suoi compagni di avventure artistiche. Mi mostra un catalogo delle sue opere preso da un’automobile carica di ogni cosa, con tele addirittura sul tetto e assicurate con corde come fossero piattaforme di tavoli, e accampata oltre il ponte ad un lato dello spiazzo erboso. Dei suoi quadri, i paesaggi con gli alberi, le piccole selve animate dai cieli a toni violenti sono molto belli. 


Procedendo sulla riva dal ponte metallico verso meridione, tempo addietro e regolarmente all’imbrunire mi arrestavo all’incirca a metà via prima di arrivare al ponte della saracinesca e con in mano un taccuino mi davo a stilizzare la vista degli alberi sulla riviera opposta. Da uno di quegli appunti, che non vanno più intesi come figurativi perché la stilizzazione l’avevo portata all’estremo, ho tratto un acquarello che campeggia ora su di una parete con altri quadri nella casa d’un aspirante collezionista di dipinti. Nelle sue modeste dimensioni non sfigura. 


Oltre il ponte della saracinesca la riva si allarga di molto e diviene quasi un prato costellato di piante e alberi. Arginato sul lato d’occidente da un viale ingombro di traffico al cui rumore una fila di piccoli pini con buona e tacita volontà cerca di far da schermo. Per ogni albero estraneo al filare di confine il senno dell’amministrazione dei parchi e giardini della città ha provveduto ad apporre un cartiglio con sopra scritte specie della pianta e piante affini. In questo finalmente si supplisce per quanto possibile a una della lacune più deprecabili delle nostre scuole, la scarsa attenzione per lo studio delle discipline descrittive della natura, animali e piante e minerali. Si vanifica uno sforzo di millenni culminato nel genio di Carl von Linné, il Linneo che scrisse a questo proposito nomina, si nescis periit et cognitio rerum, ovvero se non conosci i nomi sfuma pure la cognizione delle cose. E in effetti nella semplice passeggiata sulla riva quali alberi ho incontrato fin dal ponte con la casetta? Dei salici che chinano le loro fronde sulle acque mi accorgo, ma dei carpini, dei frassini, degli olmi, dei gelsi? Li avrei riconosciuti se non vi fosse ora il provvidenziale cartiglio comunale?


La riva opposta lungo il fiume è un muraglione in mattoni abbastanza alto oltre il quale si vedono le fronde e le cime di un filare di tigli e platani. A metà via circa dal ponte della saracinesca fino ad un ponticello metallico sospeso, il muraglione interrompe il suo andare quasi rettilineo per divenire una specie di bertesca rotonda. Su di essa, su di una piattaforma in cemento campeggia un’ara attorniata in circolo da delle colonnette, pure in cemento grigio, a forma di prismi allampanati e rastremati verso la cima. Una volta che si arrivi al ponte sospeso e si imbocchi la riva opposta a ritroso, verso il castello carrarese, ci si accorge che la strana composizione architettonica sulla balconata protesa verso il fiume è un monumento a ricordo dei soldati del corpo di spedizione e dell’armata italiana in Russia . La piattaforma è chiusa da una cancellata semicircolare. Il piccolo luogo desta una bella impressione perché è ben tenuto. Nei pressi dell’ara alcuni vasi ospitano delle piante da fiori e decorative. Non vi sono scritte retoriche ma solo, sulle colonnette, i nomi delle località russe ove si svolsero le battaglie sostenute dai soldati italiani. Per la terza volta partiti in grande avventura, prima con Napoleone, poi in Crimea, infine sul Don. Mi impressiona il fatto dello stare rivolta ad occidente l’ara, e questo mi sembra quasi un omaggio alla carica che sfondò l’accerchiamento russo durante la ritirata e che prese avvio dall’ordine dato dal generale Reverberi, irto su di un semovente germanico, ai suoi stremati alpini: “avanti, che di là è casa nostra”. 


Poscritto


Una sera del tardo ottobre, percorrendo la riva allargata a prato nell’oscurità, questo monumento erto sulla bertesca di là dalle acque mi è apparso nella sua massima elementarità. La corona di colonnette ha poco di presso un pennone sul quale sventola il tricolore le cui tinte sotto il manto della luce notturna si stemperano nel blu diffuso. Il verde diviene cupo come quello d’un’antica pittura, il bianco muta in argento grigio, il rosso si fa porporino. Le colonnette pure brillano d’argento antico e la visione è nuda di ogni retorica. Quasi da tempio di Vesta scoperchiato e in rovina.  Ho pure scritto in alcune linee poco sopra, del luogo sulla riva nel quale spesso, vorrei dire sempre durante il cammino, effettuo la sosta per ammirare gli alberi di là dalla corrente. Delle viste che ho stilizzato con un grado di rudimentale barbarica astrazione una può rappresentare un diluitissimo ricordo e quindi reso dinamico, quasi alla Hahnemann, della torre che si leva dal castello carrarese. Questa è divenuta un quadretto che forse vuole inaugurare un’approssimativa serie di dipinti a olio e ora orna la parete d’un altro collezionista. Nel quadretto la torre alberga due stendardi che garriscono al vento sul fondo livido d’un cielo che promette rovesci di pioggia. 



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