Editoriale

Il valore politico della museologia, altro che vecchi professori polverosi!

Lo stato dell'arte in Italia: lo sbando nel settore contribuisce a indebolire il sistema culturale identitario, lo sanno bene gli inglesi

Riccardo Rosati

di Riccardo Rosati

ue argomenti ci stanno da sempre molto a cuore: i Beni Culturali italiani, specialmente per quanto attiene alla museologia, e l’orientalistica. In questo caso, il nostro sarà un grido di denuncia verso l’autentico sciacallaggio culturale in atto nel Paese da fin troppo tempo, che si è aggravato con l’avvento del cosiddetto “berlusconismo”, dunque di una società ignorante e materialista, e giunto persino sull’orlo del baratro da tre anni a questa parte, quando ha preso pieno potere un sistema che ha l' intento di eliminare sistematicamente ogni elemento identitario della nostra nazione; tuttavia il discorso si potrebbe estendere al resto dell’Europa “federata” sotto la dittatura finanziaria della moneta unica. La nostra breve riflessione chiamerà in causa anche gli addetti ai lavori (museologi e orientalisti), i quali sono non poco colpevoli per il disastro culturale che stiamo vivendo. Questa tematica è di primaria importanza per tutto il Popolo Italiano.

Nei nostri studi in Italia, ma specialmente all’estero, abbiamo capito la fondamentale differenza tra una museologia dottrinaria e nozionistica, dunque sterile, e una che mette la ricerca scientifica al centro della propria speculazione. Tanto per intenderci, questo particolare e vasto campo di studi non è come la Storia dell’Arte, poco importa dunque riempirsi la bocca con date e nomi. La museologia è politica! Questo lo apprendemmo nel corso di alcuni studi a Leicester (GB): prima facoltà di museologia al mondo. Non certo in linea con la visione progressista della accademia inglese, apprezzammo però, quasi fosse una folgorazione, l’idea che un museologo debba pensare al Museo come a una entità capace di proporre valori e fare persino della propaganda. Da noi, per converso, la figura del museologo è immancabilmente arrangiata, vale a dire in mano a persone che si illudono che con una laurea artistica o in archeologia si possa capire l’essenza stessa della istituzione museale. Questo ripropone la ormai conclamata inutilità delle nostre università, dove si fa confusione tra curatore e museologo. Il primo è uno specialista di settore, mentre il secondo necessita di padroneggiare più materie e di avere, per l’appunto, una visione anche politica della cultura.

Passando alla orientalistica, certo dopo la vendita della Banca d’Italia, non possiamo illuderci che la chiusura di una istituzione come L’IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) di Roma, giudicato “ente inutile”, possa essere qualcosa di eclatante per la solita cricca che ci governa da anni: sono loro, sempre gli stessi, cambiano solo di poltrona. Ma cosa era l’IsIAO? Solo la più antica e prestigiosa istituzione di studi asiatici d’Occidente.

Non solo, chiudendolo, hanno interrotto la gloriosa tradizione degli orientalisti di scuola IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente.), di cui facciamo parte, visto che noi NON siamo africanisti, dunque siamo scuola IsMEO, ma hanno anche chiuso una biblioteca di rilevanza mondiale, specialmente grazie al Fondo Tucci. In più, ecco la ciliegina sulla torta, dopo la guerra, le importanti collezioni del Museo Coloniale Italiano, ospitate presso l’Istituto, vennero messe nei depositi, come ridicolo atto di pentimento verso quei “poveracci” ai quali avevamo costruito scuole, ospedali e strade e che si ammazzano da decenni per questioni religiose e tribali.

 Ecco cosa è accaduto: Istituto, Biblioteca e Museo, tutto chiuso. Mentre il sindaco Marino annuncia una inutile Città della Scienza nel quartiere Flaminio. I museologi hanno forse protestato? Ovvio che no. In Italia chi fa questo lavoro non si interesserebbe nemmeno se andasse a fuoco un settore non di sua competenza del museo dove lavora. L'italico museologo non sta affatto lì per il Museo, bensì per pubblicare, viaggiare spesato da un convegno all'altro e ottenere visibilità. Quanti direttori dei musei romani hanno messo piede più di una volta in un museo della città che non ha nulla a che fare col proprio particolare campo di interesse (la parola in questo caso è azzeccata)? Ben pochi.

La cosa che ci ha però molto colpito è che dal mondo della orientalistica romana non c'è stata alcuna vera opposizione alla chiusura del celebre istituto. Tutta diversa la storia per il possibile spostamento del Museo Orientale situato oggi in via Merulana, per difendere il quale si sono organizzati sit-in e pagine Facebook di protesta. La spiegazione di tale doppiopesismo è di uno squallore imbarazzante, ma va raccontata per far capire chi gestisce gli studi orientali in Italia. L'IsIAO non ha mai avuto buoni rapporti con la Sapienza, infatti i docenti venivano in prevalenza da L'Orientale di Napoli. Nel suddetto museo invece lavorano e collaborano vari semi-accademici collegati con l'ateneo romano. È deprimente ma è così.

Costoro si credono degli intellettuali, invece sono solo dei burocrati che pensano esclusivamente ai benefici che un posto di potere può garantirgli. Ragion per cui, nell'ateneo romano il “Caso IsIAO” è stato prontamente dimenticato. Diciamo oltre, chi gestisce da alcuni anni il dipartimento asiatico ha un atteggiamento a metà tra un signore feudale e un manager. Nel primo caso, egli ama distribuire collaboratori – a dire il vero, il più delle volte si tratta di collaboratrici – in giro per università e istituti di ricerca, nell'attesa di farli rientrare nella “casa madre” romana. Per quanto concerne il secondo aspetto, forse costui ha persino gioito per la scomparsa di un “concorrente” tanto blasonato. Un tempo si poteva tranquillamente evitare la Sapienza, se si aveva intenzione di studiare le culture asiatiche; senza l'IsIAO ora non è più possibile.

E la ricerca? Non c'è, da noi è ormai una parola quasi obsoleta. Difatti, oggi le bibliografie di tesi e testi accademici o divulgativi sull’Oriente presentano saltuari riferimenti a studi in lingua italiana. Solitamente un libro sulla Cina o sul Giappone – tanto per citare le due principali culture di quel continente – include una bibliografia dove il 70% delle voci sono di studi in lingua straniera. Non c'è pero da stupirsi, visto che sono scomparsi da anni gli ultimi due veri orientalisti nostrani: Fosco Maraini e Pio Filippani-Ronconi – Tiziano Terzani è stato un profondo conoscitore dell'Asia, ma resta a nostro avviso più un giornalista che uno studioso – dunque, questo campo di studi è morto in Italia.   

Tornando all’IsIAO, il fatto che sia stato giudicato come un peso di cui sbarazzarsi è lo specchio che ci rivela quello che siamo diventati, una nazione di pecore che segue ogni menzogna del Grande Fratello televisivo, nonché tutte le sciocchezze che popolano la cosiddetta Rete. Non pensiamo più con la nostra testa, poiché non leggiamo e, cosa ancora più grave, non studiamo, accontentandoci di sapere il minimo indispensabile, così da superare l’esame di turno, ma della corruzione nelle università poi è inutile parlarne, ormai è stata “condonata”. Diciamo solo che stavolta è stato il turno dell’IsIAO, poi dai prestiti si passerà a vendere le opere custodite nei depositi dei nostri musei, e via a far morire la culla dell’Umanità d’Occidente, l’Italia. La scusa sarà che non ci sono soldi, quando basterebbe lo stipendio di uno dei tanti dirigenti pubblici o para-pubblici per mandare avanti per un anno tutti i musei civici romani. Questo è lo stato dell’arte in Italia.

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