Io, se fossi ebreo

Me ne starei in silenzio, con i miei pensieri, i miei ricordi, i miei dolori

di Marika Guerrini

Me ne starei in silenzio, con i miei pensieri, i miei ricordi, i miei dolori

Adrien Brody ne " Il Pianista"

Io, se fossi ebreo, tacerei. Me ne starei in silenzio, con i miei pensieri, i miei ricordi, i miei dolori. E se proprio mi fosse chiesto  di parlare, mi rifiuterei, e se proprio mi fosse chiesto di parlare e mi fosse chiesto ancora e ancora, proverei ad andare oltre, a guardare come dalla lente di un cannocchiale o in volo come fossi un gabbiano, da lontano, dall'alto. Proverei a far tacere il dolore, quello degli avi che echeggia in me, come una sorta di rispetto per il dolore stesso. E se tutto questo non mi riuscisse, se non ce la facessi, se non potessi, allora, solo allora, affiderei ad altri la parola, la consegnerei ad altrui labbra, ad altrui articolazioni di suoni, perché, come acqua di sorgente fosse trasparente, veritiera, pura.

Con lo spirito del: se fossi ebreo, che lo scrittore, attore della vita,  dovrebbe possedere, usare per entrare in personaggi, storie, vite, anime altrui, con questo spirito ho assistito, per la terza volta, alla grande prova d'artista di Roman Polanski: Il Pianista. Lì, immobile sulla poltrona, ho lasciato che le immagini scorressero senza pensieri, che la storia si raccontasse, che si respirasse sui titoli di coda, fino alla loro scomparsa, all'armonico sfumare delle note di Chopin sui ricordi di Wladislaw Szpilman nella grande interpretazione di Adrien Brody. E tutto era stato perfetto, tutto sarebbe stato perfetto se, nell'attimo precedente lo spegnimento, col dito quasi in pressione su pulsante off,  una sagoma non avesse occupato lo schermo nella figura di Gioele Dix, attore. Da quel momento ai minuti successivi, tutto, compassione, gratitudine, funzione redentrice dell'arte, incontro di due anime, persino lo sgretolarsi di ogni guerra che viene fuori dalle parole: a breve tutto sarà finito,  che il tedesco, per di più ufficiale con pieni poteri di vita o di morte, pronuncia al pianista ebreo quale segno di speranza, di futuro, si frantuma, tutto quel che il finale della storia vera, rispettata da Polanski, era andato a comporre diverso dai consueti contenuti sull'argomento, era andato a comporre oltre, si frantuma. 

E tutto annega nel dejà vudell'attore-commentatore italiano. Così, nella consueta sottolineatura della tragedia storica, espressioni stantie hanno denigrato la figura dell"aguzzino" Wilhelm Hosenfeld, ché tale era il nome, nella storia reale, dell'ufficiale della Wehrmacht che salvò Szpilman. Così, come quasi sempre accade, i pesi e le misure sono risultati diversi ancora una volta. Non sarebbe stato onorevole attenersi alla storia reale, al suggerimento che ne dà la regia, sottile, sfumato, delicato, ma esistente, di quanto la guerra possa imprigionare gli uomini in ruoli altrimenti lontani da loro stessi? Non sarebbe stato onesto, dato il ruolo di commento, ricordare che Wilhelm Hosenfeld "aguzzino" per il commentatore, non aveva salvato solo la vita di Szpilman, ma molte altre, ricordare che nel 2008 la Yad Vashem, Museo dell'Olocausto, ha annoverato Wilhelm Hosenfeld quale "Giusto tra le Nazioni" nel "Giardino dei Giusti", su insistente richiesta di Andrzej Szpilman, figlio del pianista? Ricordare che i 25 anni di lavori forzati, a cui l'ufficiale tedesco, accusato di crimini di guerra, era stato condannato dopo la cattura nel 1945, non siano mai stati condonati malgrado le innumerevoli richieste di scarcerazione presentate da ebrei polacchi? Ricordare come Wilhelm Hasenfeld, malgrado tutto si sapesse, sia stato sempre trattato come criminale di guerra, per la divisa che indossava, esattamente come tracciato ne "Il pianista", quando Szpilman stava per essere ucciso dai sovietici per il cappotto donatogli dal tedesco e indossato per ripararsi dal freddo? Il tedesco "aguzzino" altro non aveva fatto con lui che comportarsi come nella parabola del mantello e della tunica. Non sarebbe stato onesto ricordare come Wilhelm Hasenfeld sia morto ch'era il 1952, per la rottura dell'aorta toracica sotto tortura, in un campo nei pressi dell'allora Stalingrado? 

Non sarebbe stato onorevole? Non sarebbe stato onesto?
E' la mancanza di onestà, il protrarsi di una verità di comodo, a metà, assente d'obiettività, equanimità, distacco, quando non si tramuta in menzogna, è questo che genera, alimenta discriminazioni d'ogni tipo, o ne crea i presupposti.           
Non sarebbe onorevole, onesto principiare a raccontare la storia in tutta la sua verità, la storia di tutti, e non solo quella di comodo, sì che si possa imboccare un cammino di reale evoluzione storica? Non sarebbe...?

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da giò il 02/02/2015 15:01:46

    Se quanto sopra, giustamente, asserito fosse parte di un quotidiano d'opinione vero e aperto sarebbe da applauso. Peccato che fra le pieghe di codesto giornale ci sia chi commemora con toni flautati una Nazista come Leni Riefensthal. Avrei preferito un commento alla Giampaolo Pansa dove si dà il giusto rilievo tanto al "sangue dei vinti" quanto a quello dei vincitori.

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