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Odhinn, il dio sovrano e mago

Velieri di carta dalla saga al passatempo

'tutto esprimeva in versi, come si fa ancor oggi nell’arte chiamata poesia'

di Piccolo da Chioggia

Velieri di carta dalla saga al passatempo

Dostojewskji - risunki

Ho sul tavolo due pagine tratte da un volumetto germanico del 1934. Era stato stampato da una casa editrice di Amburgo che teneva quest’opera in catalogo ancora dal lontano 1874. Se volessi ritagliare le numerose minuscole figurine e le varie sagome impresse di scafo, alberi con vele, timone, eliche e fumaiolo e le volessi incollare per poi rifinire il tutto otterrei, alla fine, una bella nave a vele spiegate lunga un venticinque centimetri circa e i cui alberi svettano levandosi dal ponte a quindici centimetri di quota. Le figurine altro non sono che i marinai intenti ai loro compiti e andrebbero incollate in ordine sparso a ravvivare il ponte. La nave è un veliero munito però di macchina a vapore ed eliche poiché siamo in un tempo nel quale non si può più, come avveniva nel passato, attendere di percorrere sole poche miglia sulla rotta nei giorni senza vento. Dato che la precisione realistica della sagome permette di individuarne tutti i particolari, si immagina facilmente la nave già costruita nel campeggiare, poggiata col suo fondo piatto, su di un foglio sul quale si potrebbero anche incollare delle strisce di carta ritagliate a onde per incoraggiare ulteriormente la fantasia di un meticoloso Andrej von Lembke intento a ricostruire in scala minima lo scenario magnifico d’un indomito veliero che solca i mari.  Sulla psicologia di un modellista, simile in tutto a quella del bravo funzionario dello zar descritto dalla penna di Dostojewskji, e sulla sua filosofia vogliamo appuntare ora il nostro sguardo, ricorrendo però ad un ricordo che salga nel tempo fino a consentirci di contemplare per il possibile ab antiquo il curioso passatempo di costruire dei velieri di carta.  Si sa come il “vascello cultuale” sia il segno di un passaggio interiore verso un particolare stato spirituale dell’essere e come tale esso valga pure da strumento del rito annesso in numerose tradizioni. E se si sono ritrovati dall’archeologia i modelli di questa nave antichissima destinata a traghettare sulle acque, che da sempre rappresentano l’elemento fluido e instabile del vivere, gli esseri che mutano di condizione, non è per nulla da escludere che, in fondo, queste vetuste copie si possano essere proiettate nel tempo e però completamente trasformate. Esse hanno smarrito il ricordo positivo del rito per adombrarne in ogni modo il senso in una nuova veste, semplificata e ridotta quasi allo stato puerile, rappresentata da questi modelli di nave di carta che attendono il silenzioso e attento costruttore che le ritagli dalle pagine della rivista per ricomporle. Sul senso della navigazione attraverso le acque del Caos nel passaggio spirituale, sulla riduzione estrema dell’antico rito ad una forma di esso, appena sopravvivente in uno stato di puerilità e di ingenuità moderne, le opere di Mircea Eliade sono il vero vademecum per orientarsi nella selva di tali aspetti dell’esperienza religiosa ed iniziatica. Ma, andando oltre e avendo bene in chiaro che detti “modelli di nave“ sono universali, colpisce tuttavia la singolare fioritura tardo ottocentesca nell’ambito germanico dei velieri di carta, che in Danimarca sono pure accompagnati da diorami, sempre nel duttile e flessibile materiale, che riproducono un faro circondato da onde minacciose. Non basta accampare, a ragione, la rapida affermazione sui grandi mari della marineria germanica e la disciplina navale coltivata con determinazione teutonica e insegnata fin dai tempi del commercio anseatico: la specificità del vascello tratto dal foglio di carta e così finemente rielaborato travalica quelle che appaiono presto esplicazioni superficiali e ancorate solo alla “rappresentazione” storica dell’oggetto ma non della “volontà” che lo ha generato. La filosofia qui aiuta certo a comprendere la psicologia dei vari von Lembke rimasti sudditi nel regno governato dal Cancelliere di ferro, il Bismarck, ma non se ne riesce a vedere il motore primo se non si ricordasse che per tali fenomeni la mitologia dispiega le sue ali in aiuto e appare come quel lampo che d’un tratto, se non illumina tutta la via al viatore, almeno gli permette di scoprire che il paesaggio circostante è vasto e aperto. E difatti nella Ynglingasaga nordica, al settimo capitolo troviamo la descrizione di una nave davvero curiosa appannaggio di Odhinn, il dio sovrano e mago, il primo degli Asi:


 “…Odhinn aveva un battello, chiamato Skidhbladhnir, col quale solcava il grande mare e che poteva piegare come un fazzoletto…” 


non si sa se il nome della fantastica nave sia stato inventato dal poeta dell’Edda, Snorri Stultuson, a partire dalla sue miracolose doti o sia stato effettivamente mutuato dalla tradizione mitologica cui l’Islandese, già cristiano, nel 1220 si affidava. Dai manuali di nordistica, si legge che il nome della nave pare voler dire letteralmente: costruita “da pezzi di legno piccoli e sottili”. Se però dei termini che compongono il nome Skidhbladhnir, o con maggiore precisione delle loro radici, seguiamo il senso che hanno assunto posteriormente nelle lingue affini si può arrivare ad una composizione di idee che non è troppo lontana ed estranea alla comune e sempre gloriosa navicella di carta ripiegata a partire da un foglio e pronta a scivolare sulla corrente d’acqua d’un poetico Astichello.  La radice di “Skidh” si ritrova oggi nel termine inglese “to skid” tratto dal nordico e vuol dire slittare o scivolare. La radice di “Bladhnir” è la stessa che vi è nel tedesco Blatt, che vuol dire  foglia e, per estensione, pure foglio di carta.  

In altri luoghi dei racconti intorno al mito scandinavo, seguendo quanto espone con lo stile denso di rapidi tratti descrittivi, Georges Dumézil nel suo “Les dieux des Germains” del 1939, dice che anche Freyr, il primo dei Vani, il dio preposto alla quiete, alla fecondità, all’abbondanza delle messi, governa la bella nave Skidhbladhnir, un natante straordinario che si poteva ripiegare e mettere in tasca e, tuttavia, una volta dispiegato, era il più veloce di ogni altra nave ed aveva posto per tutti gli dèi, Asi e Vani, muniti delle loro armi. Per questo, dato che Thôrr, l’Ase con martello signore della guerra, dei venti e delle tempeste, e Njördhr, il Vane patrono della navigazione e pure lui signore in altro modo dei venti, sono dell’equipaggio di Skidhbladhnir, essa ha sempre il vento in poppa e sfida ogni tempesta. Possiamo anche a nostra volta immaginare, senza andar troppo lontani dal vero della tradizione norrena e dalla fantasia del poeta islandese, che la nave qualora abbia necessità di rinfrescare i suoi colori o di rammendi sulla vela, arrivi ripiegata in quel di Nôatun, il “recinto delle navi”, ovvero la dimora mitica di Njördhr, affinché se ne curi la rimessa a nuovo. Vedere dunque nella miracolosa nave degli dei ripiegabile in un fazzoletto un antenata, proveniente dal mondo della saga, tanto dei raffinati velieri da ritagliare e ricomporre delle riviste ottocentesche, quanto della ben più rudimentale navicella di carta è a questo punto possibile senza distendere troppo le corde elastiche della fantasia. L’elemento specifico, che risiede nella “magia” odinica dell’avere la nave miracolosa ripiegabile in un fazzoletto e, poi, da riporre in tasca, precipita dalla saga al caso ben più modesto di un foglio a sagome colorate che la paziente opera del modellista trasforma in un veliero minuscolo ma non per questo perde la sua reale forza di suggestione. Una parte se pure minima della magia che ha creato Skidhbladhnir si trasfonde nel  piccolo veliero che nulla ha più delle possibilità del vascello della saga tranne quella di suscitare su altra scala la sorpresa per l’invenzione e un effetto poetico nel contemplarlo immobile, a vele spiegate sul tavolo, pronto a fendere le tempeste nella fantasia di chi lo osserva. Non si dimentichi, a questo punto, un altro fondamentale attributo del sovrano del pantheon scandinavo e germanico messo bene in rilievo da Dumézil nel suo libro: egli è certo il mago, e l’inventore di forme e pure delle metamorfosi di tali forme, ma è pure il dio dell’ispirazione poetica, colui che


 “tutto esprimeva in versi, come si fa ancor oggi nell’arte chiamata poesia


come raccontato nel sesto capitolo della Ynglingasaga. Non pare ora che tutti gli elementi circoscritti al curioso passatempo dei velieri in carta, dall’ invenzione delle sagome da tagliare all’ingegnosa metamorfosi delle stesse in nave, al risultato finale capace di generare un effetto poetico riposino ab antiquo, in queste peculiarità del carattere dell’Odhinn norreno? Andiamo oltre ed osserviamo che se il dio Freyr e suo padre Njördhr, in quanto  dei della prosperità e della navigazione hanno una connessione alla miracolosa nave, e in ciò essendo del tutto pari alle divinità loro simili nelle altre mitologie indoeuropee quali i Nasatya vedici o i Dioscuri ellenici, pure questa loro connessione a Skidhbladhnir non necessita, in fondo, che questa sia ancora suscettibile di ripiegarsi e ridursi in un fazzoletto, un fatto che appare troppo magico e poetico per figure divine patrone della fecondità e dell’abbondanza. La capacità di trasformarsi della nave, la sua metamorfosi la ascrivono invulnerabilmente al dio mago e poeta. Non è allora troppo ardito immaginare che per curiosa linearità filosofica e psicologica il vascello di Odhinn, descritto dal poeta islandese Snorri a tratti ridotti all’estremo, ma che sono lo stesso per noi allusivi e in certa misura anche dettagliati, dopo aver navigato per secoli nell’immateriale “mare delle idee” arrivi all’ ormeggio in un porto del mondo visibile, addirittura in prossimità geografica, e precipitato e ridotto  quanto si vuole nel veliero ripiegabile in fogli del tardo ottocento germanico. E sia in attesa del meticoloso modellista, ingenuo quanto basta, che lo costruisca per divertire e ammaestrare il figlio alla dura vita marinara o per rammentare e quindi rivivere il proprio “passaggio sulle acque” se è stato o è un vero marinaio. Oppure, se è un dostojewskjano, quieto ed abitudinario von Lemke del Nord tedesco, costruirà il veliero per evadere un qualche istante dalla vita inesplicabile cui lo legano e necessità materiali e traversìe della sorte, con la possibilità di ricordare, pure se nella curiosa forma di questo passatempo apparentemente puerile, che in ogni condizione assegnata dal fato vi è, implicito, un monito a comprendere il “passaggio sulle acque” relativo ad essa.     


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