Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Sono stati tradotti in inglese i canti di Leopardi. Ciò è avvenuto più volte dal tempo in cui la fama del poeta dell’Infinito aveva raggiunto tutta l’Europa, pure in grazia di alcune linee sul “Mondo come Volontà e Rappresentazione” di Schopenhauer. E ne sono pure stati tradotti i dialoghi ed i pensieri, in breve la prosa, che il burbero maestro di Danzica, come si legge in una sua lettera al von Doß, stimava maggiormente dell’opera in versi.
Non ho a portata di mano nessuna di queste versioni ma se la potessi avere per leggerla con il corrispondente testo di Leopardi a fronte o consecutivo credo che riuscirei a tacitare la semplice oziosa curiosità di vedere come si volga la prosa del grande di Recanati in una lingua che noi udiamo e leggiamo spesso ridotta ad una piatta favella veicolare, ed usata per esprimere modeste impressioni di viaggi o stesa in “papers” universitari e trattata in guisa uniforme tanto nel discutere equazioni della fisica quanto nell’affrontare questioni di letteratura.
Purtroppo l’essersi imposta a guisa del latino in una lingua generale per la mutua comprensione in tutto il globo ha per seguito il lasciar cadere in oblìo il fatto che l’inglese ha in sé delle possibilità stilistiche non comuni. Non scrivo qui per la mia diretta capacità di scrivere in questa lingua che riesco a leggere nei suoi testi più belli con qualche fatica e l’aiuto continuo del vocabolario, ma per averne avuto una vaga intuizione scorrendo alcune pagine poundiane ove il poeta dei Cantos, ammiratore di Leopardi poeta e del Metastasio, e volgitore e riscrittore da altri idiomi, da Guido Cavalcanti, da Properzio, dai poeti e pensatori dell’antico Oriente, dava degli esempi di stile e splendore espressivo quali si hanno nei grandi prosatori e poeti britannici. Rammento i nomi di Chaucer e Shakespeare, di Donne e Browning. Era forse dal volume “The ABC of reading” o forse in un esemplare de “Guide to the Kulchur” che leggevo tali belle pagine.
Abituato come sono allo strascicato “slang” inglese da “Grand Tour” del tempo odierno, quale lo si ascolta pure non volendo nel traffico di ogni dì, e nell’ombra d’un luogo comune che troppo spesso si ripete suscitando pena per la grossolana superficialità: quello del non avere, gl’inglesi, una grande tradizione musicale come avviene per italici, germanici, russi o francesi, mi ero sorpreso ed ero felice di leggere nel testo poundiano un omaggio commosso alla propria lingua, definita “magnifica”. È ciò che acuisce dunque la mia curiosità di rileggere, vocabolario a lato, qualche frase del poeta dell’Infinito voltata in inglese, se possibile, da un vero scrittore.
Un poscritto alla considerazione che precede sulla musica. Non mi è stato certo dato a scuola ma l’ho composto ad intervalli nel tempo, qua e là, attraverso l’audizione di alcune trasmissioni avvenute sulle radio italiana e, soprattutto austrogermanica e olandese e svizzera, di aver potuto rimediare al luogo comune di cui sopra con l’ascolto delle sonate di Purcell e delle sinfonie di Edgard Elgar o di von Delius. La nostra scuola è purtroppo estranea alla musica e non ha codificato nemmeno un minimo “background” di formazione che permetta dipoi ad un volenteroso cultore di educare sé stesso all’ascolto e di raffinare il proprio gusto. Si deve procedere allora con una specie di propria navigazione a vista nella quale l’istinto d’avventura si sia anteriormente temprato nella conoscenza delle nove sinfonie di Lodovico van Beethoven e di tutte le sue sinfonie d’opera, le quali danno un possente ed inesaurito discrimine per valutare dove stia di luogo la grandezza.
Annoto da un capitolo titolato “Principio dell’apparizione primaria” che compone l’opera poundiana dedicata al lontano medioevo delle lettere cortesi: “Lo spirito romanzo”
la poesia differisce dalla prosa nei colori concreti della sua dizione. Non basta abbia significato per i pensatori. Deve toccare le emozioni col fascino dell’impressione diretta, lampeggiando per regioni dove l’intelletto può solo brancolare
Prestando attenzione a questo balenare dell’impressione diretta ci si accorge che la poesia travalica in effetti confini della lingua in cui essa è stata composta. È su tale balenare che poggia la vera traduzione: l’impressione suscitata trova da sé le parole per esplicitarsi in altra lingua. Anche ciò deve sacrificare qualche precisione che comunque trova il compenso nelle nuove precisioni conferite dai nuovi ed estranei vocaboli.
In uno scritto apparso in veste di newsletter rivolta ai suoi lettori Francesca Diano, del cui padre, l’ellenista Carlo avevo ricordato in un altro capitolo la diade di Forma ed evento, tratta della densa immagine montaliana di ossimoro permanente. Riflettevo sulle sue parole e le scrivevo un breve messaggio a commento che incontrava il suo plauso di poetessa. Francesca Diano infatti non è solo una traduttrice di rango dall’inglese, ma scrive versi e poemi. O traduce dai poeti in guisa da ricreare lei stessa nuova poesia nel nostro latino. Dall’ossimoro cromatico quale si ha nelle voci “di tenebra azzurra”, uno dei versi del poemetto “la mia sera” del Pascoli auguravo un ossimoro permanente che si trasmutasse in miracolo. E aggiungevo che questa è cosa che sanno fare i santi e i poeti, coll’avvertimento che non si tratta certo di nuvole vuote senza realtà. Santo e poeta furono a volte nella storia i due visi d’un medesimo essere. Basti di ricordare Francesco d’Assisi e dall’Oriente Rabindranath Tagore.
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