Editoriale

Sindacati, Renzi avrebbe ragione se non fosse solo una provocazione

Qualcosa di più e di meglio deve essere pensato e realizzato rispetto agli assetti politico-sociali che appartengono ad un’altra storia e ad un’altra Italia

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

e dichiarazioni di Matteo Renzi, fatte durante il programma “Bersaglio Mobile”, riguardo al  sindacato, non possono essere risolte – alla maniera dei vertici confederali - evocando chissà quali pericoli autoritari.

Quando auspica un  “sindacato unico”,  una “legge sulla rappresentanza sindacale e non più a sigle su sigle” ed un superamento di certe rendite di posizione, espressione del “potere immobile” dei sindacati, in linea di principio Renzi non sbaglia.

Il suo limite è che, come suo solito, egli lancia il classico sasso in piccionaia, piuttosto che articolare una riflessione sul ruolo dei sindacati e  sulla loro effettiva funzione, sia  in rapporto  alla mutata realtà socio-economica del Paese sia rispetto ad altre esperienze europee (tra le tante – ad esempio- quella tedesca, unitaria e partecipativa), beccandosi così il fuoco di fila dei vertici confederali.

“Il sindacalismo – come scriveva, negli Anni Venti del ‘900, Giovanni Gentile - potrà piacere o non piacere, secondo il gusto, o meglio la cultura di ciascuno; ma è uno di quei fatti grandiosi a carattere universale e necessario, che prima o poi bisogna studiare e intendere”.

Ecco la questione: mutati i tempi, come si vuole “intendere” i sindacati? Possono essere ancora la “cinghia di trasmissione” politica, così cara (anche di recente)  a certa sinistra (che ora li usa per le sue guerre interne) ?

E’ evidente che qualcosa di più e di meglio deve  essere pensato e realizzato rispetto agli assetti politico-sociali che appartengono ad un’altra storia e ad un’altra Italia, quella della Prima Repubblica, dei suoi partiti e di certe storiche appartenenze.

In questa prospettiva la “provocazione” renziana può essere colta come un invito a ripensare il ruolo dei sindacati, al di là di usurate “rendite di posizione”, individuando coraggiosamente le nuove frontiere di un sindacalismo veramente libero, partecipativo, interno alle moderne dinamiche sociali ed economiche.

Parliamoci chiaramente, al di là di certe appartenenze di bandiera, oggi, il  proliferare delle sigle sindacali spesso risponde a piccole logiche di potere che poco o nulla hanno a che fare gli interessi reali dei lavoratori: da spartire c’è la torta della rappresentanza, dei permessi, delle “quote”, della presenza dei sindacati in vari organismi pubblici, secondo la logica del “più siamo meglio stiamo”.

Questa “parcellizzazione” rende difficile determinare chiari orientamenti sulla effettiva rappresentanza dei sindacati. Il “balletto” dei numeri degli iscritti è noto e poco gratificante, così come il volere equiparare, tra gli iscritti, pensionati e lavoratori attivi. Più significativo, al di là delle percentuali di “sindacalizzazione”, sarebbe poi  verificare la rispondenza tra l’azione delle sigle sindacali e la reale volontà dei lavoratori, magari introducendo forme più trasparenti ed “organiche” di rappresentanza, per non parlare della “volatilità” di certi bilanci sindacali, che sfuggono a qualsiasi controllo pubblico.

Ben venga perciò la provocazione renziana se serve ad aprire finalmente una riflessione più matura (i temi – come abbiamo visto – non mancano) sul ruolo e lo spazio attuale del sindacato. Di rendite di posizione l’Italia rischia di morire.

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