'Allora gli Asvini gemelli cavalieri nel cielo'

Dopo l’avvenimento sull’ondulata pianura di Waterloo -II parte-

Nuove classi di fabbricanti si arricchiscono nella fornitura di equipaggiamenti all’Armée

di Piccolo da Chioggia

Dopo l’avvenimento sull’ondulata pianura di Waterloo    -II parte-

Battaglia di Trafalgar - Dipinto di Auguste Mayer

 

Al secondo livello della costruzione napoleonica vi è in tutta chiarità l’Armée, il possente esercito munito di artiglierie, del quale l’Indra è ancora lui, Napoleone, sia pure e per forza coadiuvato da augusti Marescialli e generali e ufficiali ai quali volenti o nolenti affidarsi. Si ha qui un’incarnazione continua del Corso attraverso le tre funzioni indeuropee. Il Bonaparte è un enfant prodige nelle matematiche e sa anche scrivere con bella arte. Oltre al memoriale di Sant’Elena, altri suoi racconti sparsi lo provano. Da giovane ufficiale esperto in artiglierie e genio ha addirittura a che fare con una commissione che valuta l’invenzione del carro a tre ruote mosso da un motore a vapore costruito dall’ingegnoso Nicola Cugnot. Già sovrano, quando fonda l’École Polytéchnique di Parigi, quasi pensa di avocare a sé una cattedra di matematiche superiori. Non credo di allontanarmi dall’interpretazione corretta della terza funzione indeuropea, che nella prosperità comprende, per evidenti ragioni, pure le arti meccaniche e le matematiche ad esse inerenti, se vedo il giovane ufficiale nascere sotto la tutela particolare dei gemelli Asvini ai quali i Rbhu vedici approntano il carro d’oro a tre ruote, proprio come la macchina di Cugnot, che i due fratelli dell’Aurora con cavalli fiammanti veleggiano nel cielo di prima dell’alba! Non possiamo non rammentare a questo punto lo scintillante frammento dalle Odi Barbare dedicato all’Aurora:

 

Allora gli Asvini gemelli cavalieri nel cielo  

Rosea tremante accolgono te nel bel carro d’oro

E volgi verso dove, misurato il cammino di gloria

Stanco ti cerchi il nume tra i mister della sera

 

Il giovanissimo ufficiale Bonaparte che pare aver avuto avi ghibellini da Empoli e dall’Apuania è accompagnato dagli Asvini nella sua alba di gloria ed ha pure lui, come loro, per un gioco esatto del fato una sorella che è predestinata a far da regina nel minuscolo Ducato nel quale nasce, in quel di Valdicastello tra i posteri, ai quali ancora non chiedere l’aspra sentenza se fu vera gloria, il Poeta del frammento qui trascritto. Ci si può porre il quesito per quale fato romantico l’eterno femminino che termina in  

 

das ewige Weiblich

zieht uns hinan

 

il Faust di Goethe prenda sempre in Napoleone un tratto geografico aurorale con la sorella principessa in Lucca, la Absburgo arrivata da Vienna, la Waletzka fiore dalla Polonia.

Più tardi, colle vittorie della splendente campagna d’Italia il generale di ventisette anni descritto nelle magnifiche prime pagine della Certosa di Stendhal ascende e diviene egli stesso, pure se la madre Letizia non lo tenne in grembo mille mesi come era stato per il nume, l’Indra invincibile, il trionfo sublime del dio della guerra. Colla corona di Imperatore l’Indra di Corsica ascende al MitraVaruna d’una Europa ora sconvolta ora entusiasta. E se la guerra è inscindibile da Napoleone e lui dalla guerra, l’Armèe non può che essere il secondo pilastro della sua costruzione imperiale. Sovranità e Armata, le “ubhe virye”, le “due forze”, ovvero le due colonne portanti della sua architettura. Indra è “svaraj”, conquista la regalità colla sua forza e virtù, Varuna è “samraj”, esercita la sovranità in grazia del suo essere e del suo potere spirituale. Il Bonaparte resta, in fondo,  ancora molto legato a Indra, è accentratore e diviene troppo ebbro di conquiste. È anche Varuna colla sua “maya” di genio militare e di architetto del nuovo ma non ne penetra del tutto l’incolmabile profonda sovranità. È un paradosso per i posteri che contemplano la gloria di Napoleone: ancor vive in lui forse l’interiore sentirsi “parvenu”: a Malmaison imita i fasti delle giostre nobiliari e delle caccie a cavallo d’un tempo, come un Indra sorpassato, proprio lui che aveva percorso l’Europa rivoltando regni ormai decadenti e creando la nuova nobiltà sul campo! Per fortuna che Aryaman sorregge, pure se con modesta fortuna, il matrimonio colla rustica Absburgo che il Bonaparte volle e come volle! Forse si presagiva, si sperava in un Aiglon, poi triste Duca di Reichstadt, che non fosse condannato ad esser sempre “svaraj”, ma fosse regale anche per quieta disposizione interna,  tratta e sublimata e dal genio del padre e dalla linea antica della madre? Che fosse quando possibile e più possibile “samraj”, colui che regna, sovrano “di per sé”, come il “sovrano e non dominatore” celebrato da Ernst Jünger? Altra sentenza in sospeso per i posteri quanto il veder in qual guisa l’Aurora figurata dalle tre donne, la sorella, la Absburgo e la Waletzka siano state le ingannatrici di Varuna e le lusingatrici di Mitra. Di questo, forse lusingatrici in forma alquanto singolare e propria lo furono la sorella e la viennese perché nel ducato di Lucca ed in quello parmense vi fu stabile buongoverno, quiete e non tempeste di guerre, ed anche leggi che promossero la bellezza.

 

Nuove classi di fabbricanti si arricchiscono nella fornitura di equipaggiamenti all’Armée. Il popolo di Francia, e poi d’Italia e di Sassonia, sopporta le continue coscrizioni che rapiscono Juventas, il frutto di Aryaman, ai quieti villaggi ma si infiamma per lo splendido tricolore che percorre L’Europa. Divise, stivali, artiglierie, sciabole fucili e cavalli. E poi ambulanze, ippotraini, vivandiere. La terza funzione, quella della prosperità e dell’industria, trionfa e cova ambizioni inaspettate. La classe dei fabbricanti è ben coperta sotto il manto di Tvashtar, fabbro e falegname, e arricchisce e si avvia a mirare cospicue rendite di posizione. Qui val bene che Vayu, il vento di tempesta, si levi in una bella guerra contro il bizantino Zar di Russia, e però molto meno il suo causare un blocco continentale. Coll’Inglese si fanno affari e si accumula oro. I fabbricanti, che l’ingenuità dell’Indra accentratore, asceso poi al MitraVaruna della Malmaison, crea nobili non sopportano troppo l’inevitabile alternarsi della fortuna militare, ed all’eventualità di veder inabissarsi la ricchezza accumulata coltivano, d’intesa con certi prefetti, lungo le sterminate province marittime del Nord dell’Empire coi satelliti, dalle Fiandre alla Danimarca, l’idea di chiudere un occhio, e pure due, alla perentorietà del blocco, onde non interrompere del tutto certi commerci. Gli alberi della libertà eretti in tutta Europa in guisa di novissimi Skambha albergavano dei numi, come hanno gli alberi i rami, e questo era cosa nota. Ma, ha avvertito Goethe,

 

degli spiriti che hai evocato

difficilmente ti libererai

 

e si doveva anche immaginare che nel levare quei pali inghirlandati che avviavano una nuova età una qualche sorpresa poteva celarsi, pure se subito benevola, dato che il mito vedico li appaia alle Aurore

 

si son levate a oriente le brillanti Aurore,

come i pali piantati nei prati durante i sacrifici

 

ma da essi pali, come dallo Skambha vedico, prima o dopo doveva sortire un Indra che tutto voleva rivoltare e vincere la sua battaglia o tutto portar nell’abisso!  E però l’Indra guerriero di Corsica, sempre in campagna e intento al concitato imperio ed al celere ubbidir, oblìa che il Varuna, che pure egli da sovrano deve essere, ha mille occhi e tutto vede. E il Mitra in lui non pare accorgersi che se il blocco fa letteralmente acqua, a volte urge ricorrere al capestro per trafficanti e fabbricanti. Anche se questi dovessero essere molto in alto nel rappresentare la pur nobile e importante terza funzione. La lotta tra le “ubhe virye” e la terza funzione divina all’alba dei tempi si acquietava col sacrificio di Mada e l’ebbrezza si era versata nello champagne, nelle donne, nel gioco, nella caccia. Ma questa era acqua passata. E ormai era da molto che l’ebbrezza si riversava anche nell’oro che per questo doveva fatalmente attrarre chi non ha il cuore così vibrante per la gloria e per le cavalcate dall’Adige alla Beresina. Forse urgeva ritornare sul patto antico tra le tre funzioni senza obliare quei duri versi dell’Edda:

 

quando trafissero Gullweig (la potenza dell’oro!) con la lancia

tre volte la bruciarono, tre volte rinacque, ostinata, ed è, ella, ancor viva.

 

E poi, come leggesi in belle pagine di Mario Praz, cultore del meraviglioso splendore neoclassico indotto dal genio del melanconico Bonaparte, perché vi fu il colpevole oblìo di rinnovare l’Armée colle invenzioni? I fucili a canna rigata per esempio. O il battello a vapore dell’americano Fulton pel quale Napoleone stesso, nel memoriale atlantico, si rammarica di non aver dato un seguito. I Nasatya gemelli e protezione dei navigatori non furono sempre troppo dipresso al condottiero che pure doveva incontrare una tripartizione di isole nella sua parabola stellare. E cadere per la quarta, l’Albione. Ciò anche senza tributare soverchio peso al triste esito della battaglia navale di Trafalgar. Né, alla fine, i popoli potevano sopportare il continuo sacrificio di Juventas:  alla lunga Aryaman e Dhâtar muovon più lenti, anche se ciò non pare, delle interminate teorie di cannoni ippotrainati e poi caricati a mitraglia per tirare sui reggimenti che si affrontano. E se le vittorie fan dimenticare, e non sempre, né del tutto, le perdite patite, le sconfitte le rammentano senza consolazione alcuna se non quella della gloria, misera per chi resta a portar il carico della solitudine.  

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