Prospettive aperte II

Alla stazione veronese di Porta nuova

di Piccolo da Chioggia

Alla stazione veronese di Porta nuova

La stazione ai primi del 1900

Alla stazione veronese di Porta nuova. Il piazzale antistante volge a settentrione. Sulla destra sorge un palazzo in stile semifuturista partorito dalla buaggine di un qualche architetto che si perde facilmente nella contemplazione poco produttiva delle riviste del settore. È il palazzo delle Poste mi dice un ferroviere. Dirimpetto al fabbricato della stazione il Tempio Votivo, una chiesa che affratella nella stessa buaggine del creatore del palazzo postale il suo architetto. Traggo l’idea a prima vista che, malgrado tutto, l’architettura squallida abbia una sua necessità, purché confinata a luoghi di solo passaggio e occultata per quanto possibile da valloni alberati. Qui vi è forse l’esempio di un caso riuscito. Chi qui arriva sa che deve starvi solo per poco tempo. Che quest’impressione si transiti pure alla bella città scaligera che sta oltre le mura delle quali, dal piazzale suddetto è visibile la Porta detta Nuova, è possibile. Ciò in grazia della complicità di amministrazioni ed élites cittadine che nulla, proprio nulla ormai rammentano di quello che fu nel bel tempo scaligero e poi veneziano e poi asburgico la città, in sé magnifica. Ultimo simulacro d’un passato scomparso: la poesia di Berto Barbarani, la pittura di Angelo Dall’Oca Bianca e la gentilezza un po’ ritrosa ma davvero sincera di certi tipi di gente semplice e modesta confinati nelle classi subalterne.

Mi affretto rapidamente pel corso di Porta Nuova che conduce diritto alla piazza dell’Arena, detta la Bra. Un bel corso arginato da palazzi alti che fa rassomigliare la villa scaligera per un mezzo chilometro ad una città importante o sedicente tale. Arrivo ai due portoni ad arco sormontati da un orologio con le lancette che potrebbero essere le aste d’una cancellata, e di lì mi intrometto nella bella piazza entro la quale se ne sta da quasi due millenni l’anfiteatro romano. Un’opera con pochi eguali, spettacolare, grande senza opprimere, magnifica senza pompa. 

Traffico intensissimo di passanti. Masse di turisti che si affrettano verso l’anfiteatro. Eleganza mi pare vederne molto poca. 

Per un istante mi ero fermato sotto i portoni dell’orologio perché incuriosito dalla vetrina colorata d’una farmacia. Attratto da un manifesto il cui stile mi pareva quello d’una pubblicità degli anni trenta, con le prospettive ardite di navi e palazzi o le vaporiere incombenti. Trattavasi più semplicemente della pubblicità ben fatta d’una maison d’homéopathie: due fabbricati di città, dipinti nello stile che ricorda quello delle periferie di Sironi. Da un’arcata del fabbricato sinistro si sporge una figurina, un pupazzetto vorrei dire, che tende un braccio ad un grande uccello benaugurale che incombe possente sul fabbricato destro.

Leggo il quadretto nei due versi: il medico nella periferia porge il farmaco omeopatico al volatile pietoso che plausibilmente deve portare la medicina al malato, come Garuda fa con il Soma nella leggenda orientale. Oppure è il Garuda omeopatico che arriva miracoloso e consegna al paziente in attesa solo e nella deserta periferia il farmaco a diluizioni centesimali. 

Dato che son di passaggio e nessun programma ho se non quello di perdere qualche ora e poi giungere all’altra stazione per il treno di Vicenza indugio ad osservare, incurante delle altre bellezze della piazza, la vetrina. Su di una parete di essa campeggia un bel ritratto del nobile Hahnemann con la penna in mano in atto di annotare la sua nuova dottrina. Scopro in un angolo del quadro, e la cosa mi allieta, che l’ignoto ritrattista ottocentesco ha posto un quadretto che raffigura quella piccola casa all’angolo di due strade che in Meissen, la città sassone delle porcellane, vide la nascita del medico insigne. Calvo, bianchi i capelli delle tempie, un profilo volitivo, i tratti fini e le forme della fronte e del capo perfette che manifestano il genio e la bontà virile. 

Annoto e cerco di fissare a mente come più posso il bel profilo del grande medico sassone. È il viatico per accompagnare a sé stessi nella memoria un volto nobile e benevolo nelle correnti della folla i cui volti appaiono e spariscono per non lasciare che vaga traccia.  

Un tipo sosta incuriosito un po’ in disparte e osserva la folla che passeggia sulle pietre chiare del Liston, una specie di passeggiata sulla Bra che svolge l’ufficio che eseguono a Bologna i portici del Pavaglione o, a Venezia, le Procuratie. I caffè sono pieni, camerieri indaffarati vanno e vengono. Avvicino il tipo per chiedergli delle informazioni: di aspetto giovane, ben tenuto, semplicemente vestito. Occhio vivo. Mi indica una buona passeggiata verso la stazione periferica e mi ragguaglia su ciò che immaginavo. È operaio tipografo e mi dice che nei mesi di punta estivi la villa scaligera e in special modo la Bra trabocca di turisti. Ma non è turismo d’élite. Sono masse di passaggio o stanziali per ferie lacustri sul Benaco. Gli chiedo se la cosa renda alla città: certo, mi risponde, ma non certo a quelli come lui che piuttosto ne sperimentano il fastidio. Del resto a chi altri possono rendere masse disordinate di turisti se non a bettole alberghi alberghetti e hotel e infine a distributori di bibite?

Mi accomiato dal tipo che riprende la sua sosta pensosa. E guardo i cartelli della stagione lirica: Verdi su tutti, poi Rossini, Bellini. Vi è anche il Don Giovanni. I Carmina Burana di Orff terminano la stagione.

Dal crocevia dove sono osservo la prospettiva del corso donde sono arrivato che si perde sotto i due archi con l’orologio, poi volto lo sguardo verso la via Roma e vedo che il sole sta tramontando giusto dietro il maschio centrale del Castelvecchio. I raggi color rame si riflettono sul pavè di porfido della via. 

Dopo poco, a cielo ancora chiaro e senza nubi di questo crepuscolo estivo si accendono i globi dei lampioni che ornano la Bra in una fuga verso l’anfiteatro. Per un istante non vedo altro che lo spettacolo di questa piazza . Anche la folla mi pare quasi diradata. Sugli alberi del giardino antistante il Liston è calato il mantello d’ombra della sera. In uno strano e patetico contrappunto ai caffè illuminati in gran pompa si sono accese le lucine fioche di un chiosco che vende granatine sotto i pini…  

     

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