Intervista al Maestro

Maurizio Colasanti, la musica come forza creatrice

«Viviamo un momento drammatico, un momento storico in cui si sono saldate, come fossero pezzi di un puzzle doloroso, da un lato l'insipienza di parte della classe dirigente distratta dal facile e per nulla attratta dall'abnegazione e...»

di Domenico Del Nero

Maurizio Colasanti, la musica come forza creatrice

Il Maestro Maurizio Colasanti

“E’ necessario sapere moltissime cose, per poi ricavare la musica da ciò che non si sa.” Questo  aforisma del  compositore francese Paul Dukas  (1865-1935) potrebbe forse esprimere la concezione artistica di Maurizio Colasanti, uno dei più preparati, intelligenti ed attenti direttori d’orchestra italiani  del nostro tempo. Nome di tutto rispetto il suo, per la profondità della sua preparazione e naturalmente per l’altissima qualità delle sue interpretazioni, ma forse – come purtroppo sovente accade – più apprezzato all’estero che in Italia, malgrado una carriera di tutto rispetto.  Classe 1966, è quello che si può davvero definire un talento precoce: all’età di sette anni il suo maestro gli fa tenere il suo primo concerto solistico con la banda del suo paese. E sono solo i primi … accordi: ottiene il  massimo dei voti con lode al conservatorio  di Pescara e il massimo dei voti cum laude per una laurea in filosofia che dà uno spessore speciale alla sua preparazione musicale;  studia composizione e direzione d’orchestra con maestri di prim’ordine a Ginevra, Budapest, Vienna. Il suo curriculum comprende interpretazioni, sia del repertorio sinfonico che lirico, con alcune tra le orchestre più prestigiose a livello nazionale e internazionale e con un repertorio che spazia dal Barocco sino al Novecento; senza contare che è invitato regolarmente come docente in alcune delle più prestigiose scuole di musica internazionali. Un musicista, dunque, di cui si può essere davvero orgogliosi e si spera possa giungere anche in Italia ai palcoscenici più “gettonati”, che non sempre, purtroppo, toccano necessariamente ai migliori.

-         Maestro Colasanti, in un periodo di crisi, la cultura è purtroppo la prima a soffrire tagli e riduzioni di bilancio. Per quanto riguarda la musica classica e soprattutto le fondazioni liriche, il problema sembra essere particolarmente doloroso. Lei cosa ne pensa?

Viviamo un momento drammatico, un momento storico in cui si sono saldate, come fossero pezzi di un puzzle doloroso, da un lato l'insipienza di parte della classe dirigente distratta dal facile e per nulla attratta dall'abnegazione e dalla cura richiesta dal bello, dall'altra parte da un corporativismo che, anziché fare l'interesse supremo del lavoratore, ha inseguito inutili richieste e impresentabili ragioni, senza mai chiedersi fino in fondo qual era e qual è l'essenza ultima di un uomo di teatro.  Il principio della compiacenza inoltre ha decretato lo stato di catalessi di molte orchestre e teatri italiani: ormai c'è una ricerca puerile di consenso al ribasso che ci sta portando verso una mediocrità ed una marginalità spaventose.

-       In campo lirico, ci si lamenta spesso che “non ci sono più gli interpreti di una    volta. E’ veramente così? E in questo caso, qual è secondo lei la ragione?

E' un luogo comune, di questo passo potremmo dire anche: le stagioni non sono più quelle di una volta,  non c'è più il latte di una volta e  cosi via...fino ad arrivare a dire che  si stava meglio quando si stava peggio. A parte le battute, oggi ci sono grandissimi interpreti, sia direttori d'orchestra che solisti, sia cantanti che registi. Certamente non sono quelli di una volta, e questo è un bene, così devono essere, contemporanei. Il problema è invece un altro, ormai si è smarrito il senso vero del fare musica e del trasmetterla, ormai a farla da padrone è il sensazionalismo. La musica come arte non concettuale, ovvero come elemento fenomenologico che da percezione del suono trae l'uomo alla percezione più profonda di sé, ha lasciato il posto ad una dispersione fatale che l'ha relegata a mero fenomeno architettonico o peggio ancora a mera rappresentazione di questo.

-       Parliamo di repertorio. Quali sono i suoi autori preferiti?

In realtà non saprei gestire una classifica, una gerarchia di preferenze più o meno veritiera e originale. Non lo so.  Posso però dire con sufficiente approssimazione quali sono gli autori con cui, nel momento dello studio, della concertazione prima e poi dell'esecuzione, riesco a sentirmi annullato completamente, direi  totalmente posseduto. Vede, credo fermamente che la musica sia in fondo un  paradosso, un paradosso consapevole, di una  consapevolezza che è quella dell’Unheimliche, il perturbante di cui aveva parlato Freud. “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. Quando parliamo di “ autori preferiti” mi viene in mente questo, forse dovremmo definirli familiari, di una familiarità vicina all'intuizione di qualcosa che in fondo ci appartiene, da sempre. Per me che ho una visione della musica come astrazione, come epifenomeno in continuo divenire, esiste una certa vicinanza con tutti quei compositori che hanno concepito la musica come qualcosa di illimitato. L'illimitatezza della concezione musicale, al di la delle strutture formali è ciò che mi rende più vicino ad alcuni piuttosto che ad altri: se vuole dei nomi posso dirle Bach, Rossini, Wagner, Cherubini operista, Mahler, Bruckner, un certo Sibelius,  Debussy, Varese, Lutoslavsky.

-       Sempre a proposito di repertorio:  ci sono, sia in campo lirico che in quello sinfonico,  autori di cui si ripropone anche le opere minori (penso a Verdi o anche, ultimamente, a Donizetti) e altri che invece vengono rappresentati di rado e solo all’estero.   Eppure, ogni tanto, qualche clamorosa riscoperta lascia intravedere la possibilità di capolavori nascosti o dimenticati. C’è qualche autore che a lei piacerebbe particolarmente riproporre?

Sono stato appena nominato direttore musicale dell'Istituto dell'Orefice. Giuseppe dell'Orefice, compositore, direttore d'orchestra del '800, attivo soprattutto a Napoli, la grande Napoli del secolo d'oro dell'Opera italiana, ci ha lasciato alcuni lavori di altissimo valore musicale. Grazie a questo incarico, ho avuto modo di incrociare altri compositori cosiddetti “minori” ma che minori non sono. In Italia abbiamo un patrimonio musicale inimmaginabile e per estensione e per qualità. Nessun Paese al mondo può vantare la tradizione e la storia di cui siamo eredi, a volte mi viene da pensare che noi contemporanei non meritiamo la storia che abbiamo ereditato. Quando poco sopra ho parlato di consenso al ribasso e di catalessi di alcune istituzioni musicali italiane, mi riferivo anche a questo. Disponiamo di un patrimonio immenso , di una varietà infinita di possibilità e invece siamo alle prese con una riproposizione stantia e polverosa di programmi che ormai sono la fotocopia sbiadita di proposte ripetitive. Mi viene da pensare che autori come Jommelli, Carafa, Cherubini, Boito, Respighi, meritino più spazio di quanto non abbiano avuto fin'ora.

-       Cosa pensa, a questo proposito, di Arrigo Boito e soprattutto del Nerone?

Arrigo Boito è un classico esempio della sindrome dell'amnesia che  affligge i teatri italiani.
Uno che forse capiva qualcosa di musica, un certo Arturo Toscanini, scorgendone le qualità artistiche, chiese a  Smareglia e a  Tomassini di completare il Nerone, l'opera che era incompiuta. Questa venne rappresentata nel 1924 con grandissimo successo, poi l'inspiegabile oblio. L'aggettivo è un eufemismo.
Il metateatro boitiano, come in un gioco di specchi, come il teatro in cui recita Nerone per tutta la tragedia,  è una metafora scomoda di una poetica irrappresentabile in quanto incontenibile per la ossequiosa cultura dominante. Non si può trascurare Boito se si vuole uscire dal conformismo nel quale è precipitata la nostra cultura musicale.

-       Impugnare la bacchetta e dar vita a un’opera musicale deve essere una delle sensazioni più straordinarie che si possano provare. Come vive il rapporto con la sua professione, anzi con la sua arte?

Sono convinto che la musica contenga in se un processo di sublimazione che è il fine ultimo della sua essenza. Fare musica, fisicamente come la mia professione richiede, almeno nel suo stadio primario è una forma di emancipazione dell'io da una posizione tridimensionale ad una in cui lo spazio e il tempo assorbono la materia decretandone la sua sublimazione. Fare musica vuol dire determinare la
formazione della realtà, la realtà che noi percepiamo con i nostri sensi assume diverse forme, ma con la musica, ove è presente l'ascoltatore, essa diviene essenza ultima di un divenire universale. La musica non è la mia professione, è la mia forma di espressione e la vivo con profonda gratitudine.

Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.

TotaliDizionario

cerca la parola...