Editoriale

Ho fatto il presepe, e ci ho trovato il mondo e la sua storia eterna

Auguri a tutti i nostri lettori

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

cco, ho appena finito di realizzare, come ogni anno, il mio presepe. Sono lontane le polemiche che hanno segnato queste settimane, proprio sul presepe; in queste ore di recupero e ricollocazione del sughero, del muschio, dei pastori, di tutti i materiali necessari alla “costruzione” del presepe, non ho pensato all’atteggiamento rinunciatario, se non vile, di tanti veri o presunti pedagoghi, pronti a rinunciare a un frammento non secondario della nostra identità, pur di non offendere – questa la pretestuosa spiegazione – gli “altri”, cioè i non credenti o i fedeli di altre religioni.

Ho pensato, in queste ore, unicamente al nuovo progetto che andava realizzandosi sotto le mie mani, per la gioia dei miei nipoti e il conforto di tutta la mia famiglia, quando sarà riunita intorno alla nostra mensa di Natale. Tutto il fragrante plastico, ogni anno più esteso, intorno alla Santa Capanna, diventa il cuore della casa, nel periodo che va dalla festa dell’Immacolata a quella dell’Epifania e che è segnato dall’Attesa, prima, dalla letizia, poi.

Ma c’è di più. Questa invenzione italiana, anzi, francescana, inserisce in modo geniale la Buona Novella nel nostro mondo; ne coglie e rappresenta gli aspetti immutabili e simbolici e ci invita, ogni dodici mesi, ad immaginare la manifestazione del Divino in un panorama – anche umano -  che va ben al di là di quello storico, dove si verificò il Sacro Evento della Nascita.

In luogo del deserto pietroso di Giuda, del lago di Tiberiade, delle palme di Gerusalemme, qui il paesaggio, dove fin da bambini sognammo di aggirarci, miracolosamente miniaturizzati come le strutture e le figure di cartapesta e di creta, assume l’aspetto dei siti appenninici dove il bosco s’alterna al sottobosco e le case bianche di Gerusalemme e di Nazareth diventano casolari diroccati, fienili, borghi dove spiccano in basso fontane e in alto improbabili tetti di tegole rosse.

Il presepe però stimola altre considerazioni, che s’affacciamo disordinate alla mia mente: ad esempio, è un luogo dove tutto è già avvenuto, così che non stupisce lo scoprire tra le figurine riposte ogni anno il cacciatore con tanto di fucile o il monaco questuante, certo ignaro di tanta corruzione che affliggerà la sua Chiesa; è il luogo dove la Famiglia si fa simbolo, nella sua fissità stabile che oggi alcuni vorrebbero  - spesso riuscendoci – mettere non solo in discussione, ma a repentaglio. Non a caso, la tradizione vuole che le luci della Capanna debbano essere soltanto bianche, mentre quelle dell’Osteria, bacchica rappresentazione della perdizione carnale, non possono che essere rosse. Penso poi che, se si esclude il tratturo ingombro di pastori adoranti e recanti doni, i sentieri del presepe non conducono da nessuna parte, e i varchi dei viandanti, apparentemente ostruiti da pezzi di sughero mistificanti rocce, misteriosamente si aprono verso la Santa Mangiatoia.

Siamo lontani dalle nostre preoccupazioni quotidiane, dalla grigia razionalità dei progetti urbanistici falliti, delle folle che s’aggirano senza meta per le vie delle nostre città. Nel presepe, ognuno ha, da sempre, il suo ruolo e il senso della sua presenza: il pescivendolo-pescatore, il pastore Benino colto in un eterno risveglio, lo zampognaro, il macellaio, l’oste, la fanciulla che lava i panni, la vecchina che dà il mangime alle galline, e, naturalmente, i Re Magi con il loro corteo di servi dagli abiti sgargianti, fino agli Angeli sospesi col fil di ferro in cima alla Capanna, al Bue e all’Asinello, alla Vergine e a S. Giuseppe, in attesa intorno alla mangiatoia.

Rumori di guerra? Lontani e sottintesi, come i due legionari sullo sfondo, a far la guardia intorno alla residenza del governatore romano, fin dai tempi in cui tutto ignoravamo degli zeloti e dell’occupazione della Galilea. E penso anche che, quando sarà terminato, come ogni anno, il periodo della Festa, lontano dai nostri occhi riprenderà il cammino della storia e Maria, Giuseppe, il Bambino e l’asinello si metteranno in viaggio per l’Egitto, per salvarsi dalle spade di Erode, un po’ come tanti migranti di oggi, si fanno profughi per sottrarsi a missili e coltelli.

La storia si ripete? Spesso lo vorremmo, per sentirci rassicurati dall’assenza del “nuovo”, dello “sconosciuto”; e una tale funzione assolve il presepe, dove ogni anno l’Alieno veste i panni del Buon Re portatore di doni e i rumori di guerra sono assenti da quel teatro di sughero, dove arrivano soltanto le infantili melodie natalizie, quando noi facciamo andare il nostro lettore di CD.

Qui, tra gli abeti di plastica e i bivacchi a luci intermittenti dei pastori non c’è povertà e non c’è ricchezza, non c’è bisogno e non c’è ambizione; solo, si ripete il rito dell’attesa e dell’adorazione, nel bel mezzo delle quotidiane faccende domestiche, fra muli e agnelli. E in quell’arcadia rustica, forse, vorremmo tornare - ammesso che sia mai esistita nella sua dimensione in miniatura - lontani dalle crisi che parlano di pil in calo e di disoccupazione, di islam feroce e di città in dissesto. Qui anche i contrasti religiosi sembrano quietati e sono di là da venire perfino i malvagi del Sinedrio e i centurioni spietati.

Cosa augurarci? La pace di cartapesta di un rassicurante presepe? Che ci piaccia o no, dobbiamo tornare ai nostri giorni e guardare in faccia – sapendo che poco possiamo per contrastarle – tutte le brutture e le ingiustizie e le mediocrità che assillano le nostre giornate. Natale sta passando, Natale tornerà. Auguri a tutti.

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