Di lontano si vedono levati i monti Lessini

Tempo di gennaio, campagna.

Tornato sulla stradicciola che fa da argine riguardo gli alberi neri con i loro frutti che nell’aria del crepuscolo ancora brillano come i globi degli abeti natalizi

di Piccolo da Chioggia

Tempo di gennaio, campagna.

In questi dì del gennaio che va a finire mi cimento in lunghe passeggiate lungo il corso in pianura dell’Adige. Di lontano si vedono levati i monti Lessini. È capitato pure che, allontanatomi verso il meridione seguendo il fiume, la pianura sembri oppressa da strati di vapori e nubi basse che stendono una coltre sonnolenta di color grigio. Ma non ci si deve ingannare troppo con le parole della descrizione: la coltre è d’un grigio luminoso che dissolve gli angoli d’ombra e dona al paesaggio un’aria di chiarità che ravviva tutti i colori. Il verde dei prati, il bruno del suolo, ed anche il nerofumo degli alberi spogli . D’un tratto riguardando verso il settentrione scorgo fra le cime dei Lessini una parete montana che brilla di rosa vivo, essendo investita dall’irradiarsi non ostacolato, sopra la coltre nebbiosa, del sole pomeridiano. Gennaio stende le sue coperte ma sotto di esse cova la primavera.

 

Lungo la stradicciola che costeggia l’Adige, ma da esso è separata da dei campi coltivati che arginano il fiume avendo al limite delle acque dei filari di alberi, volgo lo sguardo soprattutto a oriente verso le pianura della bassa vicentina e padovana; le acque mi scorrono a occidente in direzione meridionale. È successo che in giornate particolarmente sgombre di foschìa potessi vedere far capolino, e nemmeno troppo lontano, l’ultima cima del bastione euganeo, quello che ancora separa la pianura dove cammino dalla distesa marina. Lo spettacolo era in questo caso compiuto: volto a nord est, dalla stradicciola, potevo abbracciare in un solo colpo d’occhio le cime prealpine , la smozzicata propaggine bluastra dei colli Berici e, in fondo, all’oriente meridionale, dove il guardo va in fuga, la cima euganea.

 

Ad un certo punto, dato che la foschìa si era fatta ancora più densa e non potevo vedere né le cime né i colli una prospettiva inattesa mi apparve interessante. Guardavo in direzione della cima euganea, verso il vicentino ed il padovano. Sulla distesa dei campi, la stradicciola è sopraelevata e agisce in guisa di blando argine, e si distinguono i filari di alberi che segnano i confini tra i vari poderi. In uno di questi ultimi, sull’uniforme distesa verde chiara, primaverile, sorge un casolare bianco, forse un dismesso deposito di attrezzi, lungo e stretto, con il tetto a due falde, le pareti senza aperture ed una porta chiusa sulla facciata. Nulla, assolutamente nulla che possa elevare il fabbricato dalla sua rozza destinazione eppure, così, di lontano forse duecento cinquanta metri in linea d’aria, complice lo strato vaporante della nebbia che tutto trascolora, il deposito appariva come un tempio arcaico, dalle pareti candide e la copertura di tinta ruggine, quasi rossa. Un trucco teatrale della nebbia si potrebbe dire. Tra me che osservo il lungo e stretto bastimento, in una bella prospettiva accidentale, ed il bastimento stesso, si leva altissimo un traliccio dell’alta tensione. Il tempio di Giano, a porta serrata per la quiete invernale e vicino il suo Ciclope con i due bracci che sostengono le lunghe catenarie percorse dalla corrente le quali lo uniscono ad altri Ciclopi, minuscoli per la lontananza. Tutt’intorno pianura, qualche albero, tracce di aratura sui poderi. Ciò che vedo è quasi identico ad un bozzetto a matita di Mario Sironi visto su di un catalogo di suoi disegni inediti.     

 

Nelle opere di Sironi il deposito ferroviario con il vagoncino in sosta, il capannone d’industria con le ciminiere di lato – in guisa di albero della vita-, la legnaia montana presso le rupi, re-inaugurano nella loro architettura il tempio arcaico, quando ancora non vi era il decoro delle colonne e il solo nudo muro sosteneva l’edificio. E diventano di fatto essi stessi dei templi. Di qui la suggestione davvero possente dei suoi quadri, ai quali si conviene senza indugio il termine di metafisici

 

Il Ciclope metallico è traforato, leggero, altissimo e allampanato, largo alla base e filiforme in cima. Il terzo ed unico isolatore, posto appunto sulla cima, figura con realismo il piccolo capo del gigante antico, ottuso, poco intelligente e monocolo. Tramite la catenaria elettrica collegata al capo degli altri Ciclopi può conferire con essi. E d’altra parte non sono pensieri che scorrono sulla linea quanto piuttosto la formidabile energia dell’alta tensione.

 

Un filare di alberi, a qualche centinaio di metri dai giganti metallici ricrea un minuscolo quadretto di Arcadia. Il piccolo fossato, la siepe, gli alberi con i rami che si intrecciano come nelle matasse di fil di ferro. Fanno una strana impressione i numerosi cachi aranciati e sodi che costellano i rami di tre o quattro piante altrimenti spoglie e nere. È tardi per la stagione ma avendone colti diversi constato che se sono del tutto acerbi promettono però di maturare squisiti. Tornato sulla stradicciola che fa da argine riguardo gli alberi neri con i loro frutti che nell’aria del crepuscolo ancora brillano come i globi degli abeti natalizi.

 

Ancora qualche passo, superato il filare e i Ciclopi, arrivo ad una casetta dall’intonaco chiaro e fiancheggiata da un albero il cui fusto è allampanato e termina in una chioma fitta e verde che sfiora la grondaia. Il quadretto pare inguaribilmente pittoresco ma tale lo è se solo la foschia non si dirada. Questo è il termine della via e prima di ripercorrerla in senso opposto mi volto per un istante verso la pianura veneta, oltre la casetta, già nell’ombra che prelude la sera.

 

Se può avvenire che la passeggiata inizi con la nebbia ma poi il freddo o altre cause la costringano a scomparire è certo meno raro che i ricordi di una passeggiata si compongano a quelli della successiva, il dì seguente, intrecciando nella memoria immagini e relativi eventi atmosferici.

 

Lontano, oltre la casetta pittoresca, già in ombra con il suo albero addormentato, in direzione del colle Euganeo con una lieve declinazione meridionale, lungo la traccia quasi indistinta dei fili distesi fra i Ciclopi ottusi, appare illuminata l’immensa cattedrale di una centrale elettrica. I fari proiettano la luce sulle pareti ruggine e fanno assomigliare il bastimento ad un fabbricato romanico in mattoni. Anche le ciminiere tinte a strisce bianche e rosa sono irradiate dai fari ed il bianco trascolora, sul blu cupo del cielo, in oro. Sulla cima di esse brillano i fanali rossi accesi.   

Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.