Editoriale

M5S ha vinto sulla politica che se non vuol morire dovrebbe mettersi a studiare

I vincitori rappresentano quella dimensione rivoluzionaria che funziona fino a quando dà le risposte desiderate, poi?

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

ome di consueto, l’esito dei ballottaggi ha dato la stura ad una sfilza di commenti, analisi, previsioni. Studiosi dei flussi, retroscenisti, opinionisti, politici, ovviamente, delle più disparate estrazioni hanno esposto i loro punti di vista. Volendo riassumere a sciabolate, i dati incontestabili sono i seguenti: 

1) il Partito di Renzi esce sconfitto, in quanto anche quando il PD ha vinto, come a Bologna, si è trattato del successo di un esponente anti-renziano oppure, come a Milano, si è trattato della vittoria di un candidato “anomalo”, pescato nella società civile e che si è adattato a cantare “Bella ciao”, ma che avrebbe potuto essere arruolato anche dal centrodestra;

2) il Movimento Cinque Stelle ha vinto, e non solo perché ha conquistato Roma e Torino (quest’ultima città, a sorpresa), ma perché ha saputo incarnare non più solamente la voglia di protesta così diffusa nel paese, ma anche il desiderio e la speranza di vedere un nuovo ceto politico alla guida delle città oggi e dell’Italia domani;

3) l’astensione cresce e ormai riguarda un italiano su due, sia pure con differenti percentuali dalle Alpi a Capo Lilibeo;

4) il centrodestra come l’abbiamo conosciuto dall’avvento di Berlusconi in poi non esiste più, e sembra essersi arrestata perfino la marea montante rappresentata dalla Lega di Salvini, che è arrivata a perdere la storica roccaforte di Varese ed ha fallito a Milano, dove pure governa da sempre la Regione.

Ora, non vi è dubbio che le elezioni amministrative, per quanto destinate a rinnovare gli amministratori locali e dunque da fattori locali influenzate, in Italia costituiscano un banco di prova per le forze politiche nazionali; è chiaro ad esempio come il PD abbia pagato lo scotto di mafia capitale a Roma e le lotte intestine a Napoli, concluse per di più con la scelta di un candidato così debole da non arrivare neppure al ballottaggio; ma è altrettanto chiaro che in tutti questi mesi Renzi non ha saputo giocare con la necessaria abilità sul tavolo del Governo e su quello del Partito (per quest’ultimo, specialmente a livello periferico). Delusione sul piano dei risultati economici (malgrado le continue forzature in chiave ottimistica), gestione deficitaria nei rapporti con l’Europa (specie in materia di accordi sull’immigrazione), personalizzazione esasperata prima delle prove elettorali, salvo fare marcia indietro e rinviare “il giudizio di Dio” al referendum autunnale sulle riforme. E non parliamo dei rapporti ambigui con le opposizioni, alla ricerca delle maggioranze variabili, - necessarie, data la fronda interna sempre più marcata - e dei rapporti con alcuni esponenti dei poteri locali, primi fra tutti il compagno di partito Emiliano e il nuovo Masaniello De Magistris, che a sua volta ha sfruttato lo sgarbo governativo di Bagnoli per vestire i panni del capopopolo pronto a difendere l’onore e l’autonomia dei napoletani (ecco un altro “fattore locale” che minaccia di tracimare in campo nazionale, dove c’è sempre uno spazio per gli “antagonisti” di turno).

Cinque Stelle. Il Movimento sembra cresciuto in qualità, almeno nei suoi esponenti di punta; ora, si tratta di vederli alla prova i nuovi sindaci al femminile di Roma e Torino, non senza registrare la sempre variegata composizione dell’elettorato, pronto a ricevere apporti da destra e da sinistra. Da un lato, aspettiamo di vedere come la Raggi riuscirà a governare le riottose corporazioni che hanno, in tutti questi anni, devastato Roma fra corruzione, arroganza, inefficienza, a partire proprio dalla macchina burocratica del Campidoglio, e come riuscirà a mettere mano al groviglio di debiti e crediti (spesso inesigibili) che soffocano la Capitale. Quanto a Torino, dopo aver visto i festeggiamenti in piazza non solo di “eterni resistenti”, ma anche di antagonisti e “No Tav”, ci chiediamo come riuscirà a dirimere la questione la tranquilla Appendino.  Nuove sintesi? Ce lo auguriamo, per carità di patria, ma almeno sul piano delle enunciazioni, non abbiamo colto spunti interessanti che andassero al di là dei valori pre-politici dell’onestà, della trasparenza, della legalità. Basteranno?

E a proposito di nuove – o vecchie – sintesi, il centrodestra sembra dividersi (fra l’altro!) sulla questione dei moderati, decisiva ai fini della formazione di una coalizione che possa essere competitiva su tutto il territorio nazionale, quando sarà il momento di misurarsi di nuovo alle urne. A noi sembra che gli elogi a Parisi e a chi lo ha scelto come candidato a Milano (Berlusconi) lascino il tempo che trovano: in politica conta vincere, come nello sport (con buona pace del candido de Coubertin). E Parisi non ha vinto, anche perché non è riuscito a portare al voto i tanti milanesi delusi e astenuti. D’altro canto, il modello Milano, fatto di sobrietà, operosità, capacità imprenditoriali, non è esportabile: dove è stata tentata la carta dei managers, come a Roma (Marchini) e Napoli (Lettieri), si è rivelata fallimentare. Il fatto è che in nessun angolo d’Europa gli esponenti dei movimenti populisti riescono a stare insieme con i partiti conservatori, moderati, liberali: non in Francia, non in Germania, non in Gran Bretagna, non in Polonia, non in Ungheria; la stessa Spagna non ha fatto registrare affidabili avvicinamenti fra i “podemos” di destra e i popolari di Rajoy.

E allora? Continuare a costruire coalizioni le cui componenti hanno visioni del mondo (da cui discendono provvedimenti pratici) inconciliabili, come quelle liberal-capitalistiche e quelle nazional-popolari? Illudersi di vincere qualche competizione elettorale, ma non riuscire a governare e legiferare come nelle aspettative degli elettori e come nel ventennio berlusconiano? E come restare sorpresi o far finta di niente, di fronte all’astensionismo montante? Forse i nostri politici dovrebbero cominciare a studiare la scienza politica, per esempio da Tocqueville a de Benoist, da Donoso Cortes a Schmitt a Régis Debray, per riscoprire le incompatibilità fra  modello liberale e democrazia, per scoprire la complessità dei movimenti populisti (altro che “pancia” del paese!), per riuscire a leggere la crisi della democrazia rappresentativa, condannata per sua natura a creare “caste” di potenti e a bloccare la circolazione delle élites, per comprendere e rimettere in valore le categorie della cittadinanza e del  limes.

Già, dovrebbero studiare, ma non hanno tempo: alle porte c’è sempre una tornata elettorale, un Direzione di Partito, un referendum da organizzare o da combattere.


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