Editoriale

Vecchi e nuovi terrorismi dagli anni '70 a oggi

Gli analisti invece di spiegare ingarbugliano i fatti, confondono le situazioni creano mostri dove non sono lasciando crescere il vero pericolo

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

a nuova carneficina sul lungomare di Nizza ha brutalmente riproposto ai governanti, all’opinione pubblica, agli “specialisti” gli interrogativi che, almeno a partire dal fatidico 11 settembre 2001, affliggono, senza trovare risposta, le nostre coscienze; e questo, a distanza di pochi giorni dalla macelleria di Dacca, dove hanno trovato una morte orrenda, fra gli altri,  nove connazionali.

Per inciso, a proposito del sempre più frequente spettacolo del sangue, comincia a serpeggiare il sospetto dell’assuefazione di massa, se è vero che, soprattutto di fronte al massacro di Dacca, tanto la sensibilità della gente comune quanto i più alti esponenti della nostra politica hanno fatto registrare assenze, banalità retoriche, ritrosia (basti pensare al diverso rilievo e impatto emotivo nei media e nelle istituzioni dell’omicidio di Fermo, un tragico, ma isolato fatto di cronaca, sulla cui esatta dinamica e motivazioni sono ancora in corso indagini); e comunque, è bastato il sanguinoso incidente ferroviario di Andria – altra macelleria!  - per consegnare all’oblio pubblico la nuova impresa del terrorismo.

E’ di queste ore la rituale rivendicazione da parte dell’ISIS della strage del 14 luglio; ma anche prima era quanto meno plausibile l’inserimento dell’eccidio nel quadro della guerra in atto tra il fondamentalismo islamico e la civiltà impropriamente definita “occidentale”. Al di là della scelta simbolica della data, celebrativa dei principi su cui si basano gli ordinamenti, la cultura, i costumi “occidentali” – e la visione simbolica, anche nel male, è peculiare di questo movimento - quanto si sa dell’attentatore è comunque riconducibile al mondo musulmano, a partire dalle radici familiari – il padre è esponente di Ennahda, braccio politico dei Fratelli musulmani – fino all’oggettivo beneficio “strategico” prodotto a favore del jihadismo.

Ora, nella ricorrente fioritura di diagnosi e commenti – spesso acuti e centrati – nonché di terapie (sempre generiche e inadeguate), si è fatta strada la recrudescenza del raffronto con il “nostro” brigatismo degli anni di piombo, oltre al consueto ciarpame di impauriti luoghi comuni del tipo “non bisogna confondere l’Islam con il terrorismo”, oppure “se di guerra si tratta, va combattuta con le armi dell’intelligence, ma soprattutto della conoscenza e della tolleranza”, o ancora “l’origine di questo terrorismo va ricondotta alle colpe – non solo coloniali - dell’Occidente ed all’emarginazione alla quale sono condannati anche gli immigrati di seconda e terza generazione”, e via elencando banalità buoniste, anche in tema d’immigrazione e diritti di cittadinanza.

Quel raffronto, tratteggiato perfino da qualche commentatore d’Oltralpe, sembra motivato principalmente dalla constatazione consolatoria che “quel” terrorismo fu sconfitto e cancellato dalla storia, e dunque una consimile campagna può essere ripetuta, con risultati analoghi. Una variante interessante, non priva di fondatezza, la si ritrova nelle analisi di Olivier Roy, il quale sostiene che un certo diffuso antagonismo, critico a 360 gradi della civiltà basata sui principi liberali, democratici, capitalisti e cristiani, abbia trovato nell’islam una sorta di mantello, di struttura ideologica unificante. Secondo tale teoria, questo approccio al Corano interpretato alla lettera non sarebbe dunque un vero ritorno alle origini di quella fede, bensì la manifestazione più cruda e massiva di un nichilismo tutto moderno.

Per dimostrare quanto sia destituito di fondamento il paragone fra teoria e prassi delle “Brigate Rosse” – ma, sul versante opposto e per ragioni differenti, che non è il caso di analizzare qui, anche di quelle “nere” – e l’odierno jihadismo, basterebbero poche considerazioni sparse (le sole, del resto, che in questa sede è possibile formulare). In primo luogo, i nostri analisti si ostinano a sottovalutare, se non a negare – o a non vedere – la natura religiosa di questo islam fondamentalista. Una simile lacuna nei ragionamenti e nelle valutazioni di tanti “specialisti” della politologia, della sociologia, della geopolitica, dell’economia, della comunicazione si spiega certo con l’ormai consolidata laicità della nostra cultura e del nostro stesso vissuto quotidiano; una laicità che si traduce in insensibilità verso il sacro e prescinde da qualsivoglia orizzonte ultramondano fra le cause dell’agire umano, precludendosi così la comprensione di chi questo orizzonte ha eretto a faro della propria esistenza e della propria morte.

E questo non è che il primo. Essenziale discrimine fra il “vecchio” brigatismo e il nuovo terrorismo islamico. Alla spicciolata, elenchiamo alcune fra le altre differenze capitali fra i due fenomeni: le BR individuavano bersagli significativi, nell’ambito di categorie sociopolitiche ben circoscritte, mentre i jihadisti sparano nel mucchio; le BR erano legate da uno spirito comunitario, le cui radici ideali non andavano oltre la rivoluzione bolscevica e la Resistenza antifascista, in questo incarnando un fenomeno decisamente “moderno”; sull’ateismo dei brigatisti rossi non occorre spendere troppe parole, così come sul fatto che in essi non aveva certo un ruolo centrale lo spirito del martirio, meno che mai dell’omicida-suicida, senza contare la crescente disponibilità a negoziare con l’odiato Stato, con i connessi fenomeni del pentitismo e della dissociazione, impensabili sotto l’imperio della Sharia, e che costituirono le basi della disfatta del brigatismo. Se si aggiungono, sul terreno della prassi, la delimitazione ideologica dei bersagli e la rigida struttura organizzativa, da un lato, e dall’altro la indefinita proliferazione degli obiettivi e degli stessi militanti (i cosiddetti “lupi solitari”, incontrollabili da parte della tanto invocata e certo importantissima intelligence, ben più delle “cellule dormienti” della ormai superata al qaeda), il quadro è sufficientemente delineato per scoraggiare simili accostamenti, anche tralasciando la decisiva funzione del web, inesistente negli anni di piombo  e micidialmente operativo oggi.

Che fare, allora? Nessuno, evidentemente possiede la ricetta, che coinvolge le realtà più disparate, sui più diversi piani: sullo sfondo, vi sono i nuovi (ma poi non tanto) “Stati canaglia”, in primis Arabia Saudita e Qatar, titolari di colossali interessi economici e finanziari e dunque di un enorme potere di ricatto, nonché Stati animati da interessi spesso divergenti da quella che fu la Christianitas (e pensiamo a Turchia e Iran); ma se questi sono i fondali, sul palcoscenico, in mezzo a noi, vi è la presenza crescente – sia per i flussi, sia per la capacità demografica - di immigrati di religione musulmana, inutilmente, finora, chiamati a far sentire la loro voce “moderata”. Certo, la lezione dell’identità, da declinare nella storia e nell’attualità, dovrebbe essere alla base di ogni provvedimento, di ogni sensibilità, senza malanimo verso “l’alieno”, ma anche senza confusioni, e soprattutto senza la paura di dare alle cose il loro vero nome.

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