Un ottimo inizio di stagione

SEMIRAMIDE. L’imperadrice di molte favelle regna anche sulla scena e seduce il pubblico

E' una di quelle combinazioni in cui tutto sembra funzionare alla perfezione: la macchina teatrale,i cantanti, la fossa d'orchestra.

di Domenico Del Nero

SEMIRAMIDE. L’imperadrice di molte favelle  regna anche sulla scena e seduce il pubblico

c. Simone Donati -Terraproject- Contrasto.

Davvero un  “bell’inizio lusinghiero” per parafrasare la più celebre romanza della Semiramide di Rossini,  bel raggio lusinghier.   La stagione 2016 – 2017  dell’Opera di Firenze non poteva iniziare meglio: non solo con uno spettacolo di altissima qualità, ma anche con un titolo poco frequentato che però,  grazie a edizioni come questa, rivela tutta la sua freschezza e soprattutto un interesse straordinario.

Certo, da Rossini si può, anzi  ci si deve aspettare questo ed altro. Giove Rossini, lo chiamava non senza una punta di  invidia Giuseppe Verdi, che con il grande  pesarese in generale e forse proprio per Semiramide qualche debito l’aveva.   Ma le divinità vanno  onorate a dovere, e non c’è dubbio  che ieri sera  l’Opera fiorentina  l’abbia fatto. E’ una di quelle combinazioni in cui tutto sembra veramente funzionare alla perfezione:  la macchina teatrale, i cantanti, la fossa d’orchestra. E anche il pubblico certo, che ieri sera ha finalmente riempito il suo teatro anche se il titolo non era tra quelli più noti; e lo ha accolto con applausi calorosi e convinti, anche se forse uno spettacolo come questo avrebbe meritato consensi ancora  più entusiasti.

La regia di  Luca Ronconi, era una ripresa di un allestimento del 2011 per l’opera di Napoli, che non aveva mancato di suscitare qualche perplessità.  Il teatro toscano ha voluto tra l’altro cogliere l’occasione per rendere omaggio al regista da poco scomparso e con cui  esisteva una collaborazione ormai trentennale, riproponendo questa edizione  con alcuni ritocchi  e adattamenti di Marina Bianchi e Marie Lambert.

“ Per noi che abbiamo letto Freud, è pane di tutti i giorni”. Così  Ronconi parlava della sua Semiramide : “Uno spettacolo fatto di pochi segni significativi, lontano dalla magniloquenza che ha sempre accompagnato questo titolo” e quindi niente ori, sete, strascichi e palazzi festosi. Obiettivo del regista, quello di delineare una figura femminile che avuto molti amanti, una maternità incompleta, complottato per uccidere il marito e che decide di sposare, senza saperlo, il proprio figlio.

Roba da Freud? Forse, ma soprattutto roba da Sofocle e questo Ronconi lo sapeva benissimo, come lo sapeva il librettista Gaetano Rossi e ancor prima di lui, Voltaire. Vien dunque da chiedersi se è proprio necessario infilare sempre e necessariamente la psicologia sulla scena e soprattutto  voler sempre “astrarre” un soggetto dalle proprie coordinate spazio – temporali. Anche la scelta di confinare il coro nel la fossa d’orchestra può sembrare un elegante e raffinato omaggio alla tragedia greca, ma rischia  di introdurre un ulteriore elemento di “staticità”: e questo, quando si ha a disposizione un coro dalla bravura scenica, oltre che vocale, come quello del Maggio, può essere un vero peccato. Eppure, a onta delle critiche mosse alla edizione napoletana,  non si può certo affermare  che questa lettura manchi di fascino: anche la tanto criticata staticità in fondo dà all’allestimento un ulteriore tocco di sapore antico e arcano,  di certo anche grazie ai cantanti e ad alcuni figuranti che in certi momenti sembravamo spuntare dalla terra come i mitici  “sparti”.  Le scene di  Tiziano Santi “scolpiscono” i personaggi sullo sfondo un pesante muro  che copre l’intera scena e i lati, solcato da varie crepe: bianco nel primo atto, nero nel secondo.  E comunque non mancava qualche concessione  alla spettacolarità: l’apparizione dell’ombra di Nino è stata sostituita da un sepolcro calato dall’alto, con voce proveniente dal golfo mistico.   Da aggiungere poi il delirio di Assur, inscenato con un gruppo di mummie bendate che lo circondavano. Nel secondo atto,  comparivano spesso in scena  alcune gigantesche  cornici in rovina,  messe una sull’altra, simbolo appunto di decadenza e  sfacelo.

 Una lettura insomma tutt’altro che banale o “forzata”, forse discutibile in alcuni punti ma nel complesso affascinante e convincente:  sicuramente un buon omaggio al maestro scomparso.    Efficaci anche i costumi di Emanuel Ungaro  (ripresi da Maddalena Marciano) e il gioco di luci di AJ Weissbard (riprese da Pamela Cantatore).

La direzione di Antony Walker è stata brillante, con buon piglio ma calibrata, senza sbavature o eccessi.  Il maestro vede in quest’opera il punto d’arrivo del Barocco e l’inizio del Belcanto: un melodramma che ha un impianto formale dall’architettura perfetta.  Innanzitutto una  sinfonia tra le  più elaborate e ricche dal punto di vista strumentale, poi solo arie e duetti,  nessun pezzo d’insieme se non l’introduzione e i due finali.  E, come  già era avvenuto nel Tancredi (anch’esso tratto da Voltaire e su libretto di Rossi)  ciò che colpisce è la perfezione della forma di arie e duetti, impostati tutti, senza eccezione alcuna, sullo schema di cavatina, o parte cantabile, tempo di mezzo, dove il coro fa progredire lo sviluppo drammaturgico, e cabaletta conclusiva.  Ma la distanza di dieci anni e soprattutto la grande maturazione sopravvenuta nel musicista dopo un lavoro intenso e massacrante  fanno di Semiramide un’opera completamente diversa e più matura: basti pensare all’aria della follia di Assur nel secondo atto, dove lo schema formale di limpida chiarezza lascia chiaramente intravedere l’agitazione febbrile delle smanie del personaggio . Nitore formale e furor passionale, un accoppiamento quasi ossimorico che pure Walker ha reso in modo memorabile:  una direzione caratterizzata da scorrevolezza e tempi spediti, ma anche dalla sottolineatura della sotterranea tensione drammatica e soprattutto rispettando quello splendido “nitore” che caratterizza anche i momenti  di maggior tensione . Senz’altro Semiramide è straordinaria: la si potrebbe definire per tanti “aspetti “neoclassica”, eppure come ignorare certi presagi di romanticismo evidenziati anche da un testo tutto sommato tutt’altro che banale o mal riuscito? Non per nulla verso la fine del primo atto il pezzo d’insieme Qual mesto gemito è stato visto come un “presagio” verdiano, probabile fonte d’ispirazione per il Miserere del Trovatore. La lettura di Walker ha perfettamente evidenziato questo fremito di romanticismo che rimane però nella sua perfetta cornice; come la riapparizione del “tema dell’ombra” (ma che minacciano gli dei … che vogliono)  che riappare nel secondo atto a perseguitare i protagonisti e in cui qualcuno volle addirittura vedere un “anticipo” di Leitmotiv wagneriano. Tutti momenti e sfumature che sono stati perfettamente evidenziati regalando profonde emozioni.

Infine, il cast. Walker aveva parlato di un cast d’eccezione e nel complesso non si può che dargli ragione.  Jessica Pratt è stata davvero regale, sia nella presenza scenica che nella voce: morbida, cristallina, caratterizzata da potenza e dizione perfetta, straordinaria nella coloratura e nelle fioriture. Di particolare impatto l’interpretazione della celebre aria bel raggio lusinghier, dove ha resto perfettamente le strabilianti colorature, e il drammatico duetto ebben a te ferisci.

Arsace e è il mezzosoprano spagnolo Silvia Tro Santafè.  Il ruolo prevedrebbe un contralto e qualche “forzatura” soprattutto all’inizio si è sentita; ma nel complesso di è destreggiata bene grazie a una buona tecnica (anche se con acuti un po’ “faticosi”) ed una discreta dizione.  E’ stata molto apprezzata, così come l’Idreno del tenore Juan Francisco Gatell. Il tenore argentino è dotato di una voce bene impostata e con una buona estensione, con un buon fraseggio e una discreta duttilità che ha dimostrato anche in questo personaggio tutto sommato abbastanza singolare. Complementare e tutto sommato “inutile” all’azione scenica,  Idreno ha invece un discreto peso sul piano vocale: la sua parte è tutt’altro che secondaria  e anche piuttosto impervia, ma  Gatell è stato davvero convincente.  Un po’ discontinuo, ma sempre più che decoroso, l’Assur di Mirco Palazzi, che è apparso in alcuni momenti (soprattutto all’inizio) un po’ opaco, ma che ha poi dato prova di un buon fraseggio e di una  discreta rotondità di suono.  Eccellenti come sempre le prove dell’orchestra e del coro del Maggio Musicale Fiorentino.

Uno spettacolo decisamente da vedere anzi da non perdere,  che può soddisfare sia lo scaltrito intenditore che il pubblico che cerca un buon spettacolo in grado di dare emozioni:  e quest’opera può darne davvero tante.

Repliche: 29 settembre, 4 ottobre (ore20); 2 ottobre (ore 15,30).

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