Racconti di un'altra stagione

2. L'Aviatore

Breve storia di un aviatore sfortunato

di Giulia Bartolini

2. L'Aviatore

Vi ricordate del nostro piccolo, morbido sognatore con le gambe corte di cui parlavamo l’ultima volta? 

Ecco, se non lo avete ancora conosciuto vi invito a tornare al primo racconto: Il Sognatore.

Intanto, andiamo avanti.

Il nostro morbido sognatore ieri sera ha finito presto di lavorare alla giostra del luna-park. È già passato un mese da quando è stato assunto e la stanchezza comincia a farsi sentire; le gambe, già troppo corte, si gonfiano tutte le sere per la fatica di stare sempre in piedi; la testa, già troppo grossa, non potendosi gonfiare ulteriormente, gli sembra invece comprimersi e strizzargli il cervello fino a fargli venire un gran mal di capo.

Ieri sera dopo aver riposto strofinacci e detersivi e aver ammirato il perfetto e lindo risultato si è ritirato nella sua cameretta, ha acceso la stufa (là fa ancora molto freddo) e ha cominciato a buttare giù qualche parola…

In un altro momento, in un mondo simile al nostro, in un’altra stagione,

C’era una volta un Aviatore.

Era un ragazzo tanto bello. Gli occhi chiari e i capelli spettinati; i pensieri tutti persi dietro a quattro nuvole e nulla più. 
Era giovane ancora, era speranzoso al tempo, e sapeva che se nasci col desiderio di volare altro non puoi essere che un tipo ottimista. Così lui era un ottimista, sorridente a ogni ora del giorno e silenzioso come solo chi ha gli occhi sempre puntati al cielo può essere. 

La cosa più curiosa è che al tempo della sua infanzia non c’erano ancora gli aerei. Eh già.

Come si può essere un aviatore in un mondo senza aerei? 

E così ogni giorno il nostro bel giovane, fin da piccolo- piccolo, faceva una e una cosa soltanto. 

Prima di dirvelo è fondamentale sapere che egli abitava con la mamma, in una casetta minuscola: tra la porta di ingresso e il muro opposto altro non c’erano che due metri di lunghezza.

“Com’è possibile?” direte voi.

Immaginate che per mangiare toccava star seduti sul lavandino, per dormire bisognava mettere i piedi sul tavolino e camminare non era certo contemplato, si saltava da un mobile all’altro come a far quel gioco che fanno i bambini. Quello della lava sul pavimento. 

Ora, capite certo che, con una casa così, come fa un ragazzo a non sognare di volare? 

E così ogni giorno da quando era bambino faceva una e una cosa soltanto. 

Usciva, percorreva due campi d’avena, uno di grano, passava attraverso due vigne (rubando qualche chicco d’uva ogni tanto, non lo negò mai) e arrivava in un prato, verde, protetto dalla chioma di qualche albero rado. Il cielo blu sopra di lui, incontaminato.  

Si sdraiava sotto il sole e piantava gli occhi in su, nel blu. Per ore. 

Non si addormentava mai. Non mangiava. Non beveva. Quasi non respirava. Stava solo fermo a fissare il cielo con tanta intensità da esserne accecato. Eh sì, perché se guardate il blu privo di contorni del cielo per un tempo indefinito dopo un po’ lo sguardo vi si sfoca, la lingua si secca, il cuore si rilassa, e voi perdete la cognizione del tempo e di ogni cosa… cominciate, come si suole dire, a sognare ad occhi aperti...vi sembra di esserne sommersi e, piano piano, con un po’ di fantasia e di fiducia, vi sembrerà di essere lassù, insieme alle nuvole.

All’ora di cena, da molto lontano (oltre le due vigne, il campo di grano e i due campi d’avena) la voce di sua madre lo richiamava a casa:

Corri a casa, corri a casa piccolo aviatore, non farti portare via dal blu che poi ti porta giù, giù!” 

lei rideva, lui sorrideva, si rialzava (un po’ stordito) e tornava a casa correndo….

Arrivato, si sedeva sul lavandino e mangiava più che poteva (era così stancante piantare gli occhi nel blu) raccontando le incredibili avventure che aveva vissuto: come aveva seguito il volo di un gabbiano fino a scoprire che stava cercando di seminare un passerotto; come aveva volato in cerchio con un falco pellegrino fino a superarlo in velocità; com’era sceso in picchiata per poi planare dolcemente sul terreno in seguito ad un volo piacevole con un piccolo colibrì. La madre rideva a sentire quei racconti e le loro giornate scorrevano felici.

Col tempo tuttavia, quelle risate e quei sorrisi cominciarono a trasformarsi in ammonimenti…

Stai con i piedi a terra”, “Hai la testa per aria”, “Mica puoi stare tutta la vita a guardare il cielo” “Fai i conti con la realtà”, “Sii pratico”. 

“Sii pratico” era forse l’imperativo più fastidioso. 

Che cosa vuol dire “sii pratico”? Essere rivolto all’attuazione concreta di qualche cosa? Bè? Volare non era forse un’azione concreta? 

Gli uccelli volavano concretamente, gli insetti lo facevano, e quel volo era fatto di corpo, e movimento e forza e tanto, tanto coraggio! 

Cosa c’è di più concreto del coraggio?” urlava spesso alla madre sbattendo la porta di casa. “Il coraggio ti spinge a fare cose che molti non avrebbero la forza neppure di sognare”

E la madre con lo sguardo dolce e un po' preoccupato ancora a ripetere:

Corri a casa, corri a casa, piccolo aviatore, non farti rapire dal blu, che poi ti porta giù, giù!”

Un giorno, finalmente, inaspettatamente, inventarono gli aerei.

Certo, c’erano stati anni di studi prima, e di tentativi, e di esperimenti, e di prove e di paura (siamo concreti, non ci si può mica alzare in volo da un momento all’altro), ma alla fine quell’ammasso di metallo e bulloni e speranza s’era alzato con qualcuno dentro. 

Il nostro bel giovane era ancora abbastanza piccolo da aver il tempo di veder crescere quell’Aeroplano fino a che…

Io vado a fare l’aviatore!” urlò un giorno tutto trionfante mentre con lo zaino in spalla e la speranza in mano usciva dalla porta di casa.  

Sì, perché, ora, fare l’aviatore non significa guardare il colore del cielo fino a farsi confondere la testa. 

E quanti piccoli aviatori si mossero verso la città! 

Ragazzi che per anni si erano arrampicati sugli alberi per avvicinarsi al cielo, che avevano scalato i tetti, imparato a saltare in alto, contato tutte le nuvole possibili, inseguito il tramonto, imparata ogni costellazione, pianto insieme al cielo, insieme alla pioggia.

Il nostro bel giovane conobbe così tanti ragazzi come lui, con la testa per aria. 

E gli fecero fare un test. Gli chiesero perché volesse fare l’aviatore.

Rispose: “Perché il cielo è blu, le nuvole bianche, e a me a terra mi bruciano i piedi”. 

La risposta scatenò una risata generale, eppure convinse tutti. Il bel giovane fu reclutato. 

Chiese se ora potesse prendere un aereo e volare. 

Gli dissero che ora c’era da imparare:

“Perché con gli aerei ci si fa la guerra e la ricognizione, mica la ricreazione!”

La cosa gli mise un po’ d’ansia. Non aveva contemplato lo scopo del volo all’interno delle sue fantasie.

Lui voleva volare perché “Il cielo è blu, le nuvole bianche, e a me a terra mi bruciano i piedi” quindi un giorno, durante l'addestramento, si azzardò a chiedere...

Scusi ma con gli aerei ci si può fare solo la guerra e la ricognizione?

Non ci si può seguire gli uccelli, arrivare sulle montagne troppo alte, sorvolare l’oceano dove non arrivano le navi…?” 

Gli aerei costano, ragazzino, non sono mica un gioco!”

“E quindi a che servono?”

“A occuparsi di ciò che sta a terra, osservandolo e proteggendolo dall'alto...”

“Ma non ha senso.” 

“In che anno vivi tu?”

“In quello che sta accadendo.”

“E in quest’anno noi con gli aerei ci facciamo la guerra e la ricognizione, guardiamo in giù e non in su, ci occupiamo della terra e non del cielo”

“Va bene.”

“Vuoi volare ancora?”

Per forza”.

E quel per forza gli diede la forza. 

Ma la guerra rimane la guerra e il nostro morbido sognatore ieri sera non s’è messo a scrivere quali cose siano giuste o sbagliate, perché tutti lo sappiamo già da soli… non s’è messo a giustificare né a condannare il suo piccolo aviatore perché non c'era niente da giustificare o condannare…ha scritto solo che a volte il blu del cielo richiede scelte importanti e se a terra ti bruciano i piedi l’unica risposta che puoi dare è “PER FORZA”.

Il nostro bel giovane dai piedi bruciati un giorno precipitò, che fosse per un guasto o per un errore, per la guerra o la ricognizione, sorridente e sommerso dal blu, solo ad una cosa pensò:  

“Corri a casa, corri a casa piccolo aviatore, non farti portare via dal blu, che poi ti porta giù, giù…”

 

E poi un punto. Non sempre le cose vanno come devono andare. Ma la felicità è qualcosa di relativo.

Il morbido Sognatore con le gambe corte e la testa pesante ieri ha fatto viaggiare i pensieri, poi ha preso i suoi quattro pezzi di carta e la sua penna e ha messo tutto nel cassettino della scrivania: domani è un altro giorno.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da L'Amica il 14/02/2017 12:04:36

    Grazie piccolo sognatore, la tua testa morbida mi permette di immaginare altri tempi ed altre stagioni. Quel blu,invade la mia anima, come il piccolo aviatore che c'è dentro ognuno di noi, solo alcuni, però, hanno il coraggio di vederlo.

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