Forse non tutti sanno che....

Parliamo di videogiochi: tanti pregiudizi e poca conoscenza

L'Italia non ha accettato la più grande rivoluzione dell'informazione dall'invenzione della stampa di Gutenberg poi

di Luca De Dominicis

Parliamo di videogiochi: tanti pregiudizi e poca conoscenza

"Il Killer di Oslo si allenava con i videogiochi" oppure "i videogiochi di guida sono fabbriche di pirati", quante volte ci è capitato di leggere simili strilli anche da parte di blasonati quotidiani nazionali? Quanta verità c'è dietro simili allarmismi? Impossibile non porsi una domanda simile se persino i TG nazionali lanciano strali in primetime per metterci in guardia contro il mostro del nuovo millennio.

Un "mostro" che, con una diffusione estesissima su tutto il territorio nazionale, entra in ogni casa ed è alla portata di tutti, anche dei più grandi.   

Il videogioco, sia come prodotto artistico che come fenomeno sociale e culturale, merita in realtà ben altra attenzione rispetto a quella dedicata dai media tradizionali. Come ogni forma di libera espressione umana è soggetto alle intemperie provocate da coloro che, figli di generazioni ancora distanti dalla vera rivoluzione digitale, accettano soluzioni semplici a problemi complessi.  Ne più ne meno di quello che accadeva negli anni '70 e '80 con la musica Heavy Metal, nel '50 con il Rock&Roll e via discorrendo.

Il videogioco esiste fin dall'immediato dopoguerra ed ha cambiato pelle molte volte arricchendosi di contenuti e di tematiche proprie delle arti maggiori divenendo, oggi giorno, un fenomeno artistico in piena regola. Prima affermazione questa che deve immediatamente farci riflettere su alcuni punti spesso ignorati: non tutti i giochi sono identici, qualcosa che intrattiene non deve essere per forza di cose puerile o poco profonda.

L'Italia, orfana di un'azienda illuminata come la Olivetti, sembra perdere negli anni '80 la possibilità non solo di competere nel panorama informatico internazionale ma anche di poter capire una grammatica che, di fatto, oggi domina l'era digitale.

Il videogioco, internet, i social network, i motori di ricerca: termini questi senza i quali non potremmo pensare all'oggi, eppure qui da noi resiste imperterrita una vulgata che relega un fenomeno che doppia abbondantemente il mondo del cinema in quanto ad esposizione e a fatturati, al sottoscala della cultura e della corretta  informazione.

Divario indice non solo di un'arretratezza culturale inadatta ad un Paese creativamente ricco come l'Italia, ma anche di una non salubre integrazione fra nuove culture e forme espressive tecnologiche e la grande comunità dei videogiocatori italiani che, secondo gli ultimi sondaggi, possono essere stimati con cifre a sei zeri rispetto alle poche centinaia di professionisti che compongono tutta la forza-sviluppo del nostro Paese.

A ben vedere il nostro paese è tagliato fuori dagli scenari internazionali protagonisti di questi anni: tutti ormai abbiamo familiarità con termini quali Google, Facebook, YouTube, Twitter, Windows, iPhone, iPad, BlackBerry, etc etc ... ma quanti di questi sistemi sono prodotti in Italia?

La risposta è quanto mai semplice: zero.

L'Italia non ha alcuno scampolo produttivo nei sistemi informatici avanzati, ad eccezion fatta di alcuni rarissimi casi. Per rendere l'idea, è come se alla domanda "quanti libri sono stati scritti da Italiani nel 2011" noi si debba rispondere "uno, al massimo due".

L'Italia non ha accettato la più grande rivoluzione dell'informazione dall'invenzione della stampa di Gutenberg poi.

In maggior ragione di questo vi è la constatazione di come l’Italia consumi ogni anno una ingente quantità di prodotti di intrattenimento digitali, piattaforme cross-mediali e gadget elettronici in genere. Ben 1200 milioni di euro l’anno abbandonano il nostro paese verso i paesi in grado di produrre intrattenimento digitale.

Si consideri, per avere una proporzione, che tutta l'industria cinematografica in Italia fattura "solo" 600 milioni di euro l'anno, ovvero la metà del fatturato rispetto ai prodotti videoludici ed al mercato loro correlato.

Ora basti pensare a quante scuole, accademie, corsi privati, esistano in Italia per le arti drammatiche in confronto ai corsi di formazione tecnico/artistica per la produzione di opere cross-mediali e trans-mediali.

Ad oggi l'Accademia Italiana Videogiochi (www.aiv01.it) ed il Cinemaster di cui facciamo parte, diretto dal regista Roberto Faenza, sono gli unici corsi di formazione dell'intero paese.

Questo rende L’Italia una delle nazioni a più bassa produttività ed alfabetizzazione informatica in Europa e, più in generale, in tutto il mondo industrializzato.

Produrre un videogioco implica coordinare gli sforzi di centinaia di professionisti per investimenti nell'ordine di molte decine di milioni di euro.  Nella realizzazione vengono impiegati artisti, pittori, musicisti, attori, sceneggiatori, registi eppure in Italia tutti questi talenti convergenti non riescono ad esser percepiti come la somma/gestalt delle singole parti.

Di norma lo sviluppo intellettuale ed economico di un paese dovrebbe essere l'obbiettivo principe degli sforzi di chi governa ma, ad oggi, l'Italia non solo rimane incredibilmente povera di offerta didattica (una sola scuola di specializzazione per l'intero paese è in effetti una statistica molto grama) ma anche (e direi soprattutto) di elasticità fiscale per chi decide di innovare.

Cosa quanto mai bizzarra pensando proprio alla nostra storia nazionale: da sempre all'avanguardia nella fisica, nell'ingegneria e nelle telecomunicazioni, l'Italia gioca un ruolo da leader nel forgiare il secolo scorso salvo arrestarsi brutalmente e tralasciare in maniera estesa la possibilità di affermarsi nell'epoca della digital globalization.

Di cosa saremo mai ricchi se non di cultura, se non di innovazione?  Se l'Italia vuole rilanciare il prodotto che esporta meglio, la creatività, di certo non può continuare a lasciarsi sfuggire un treno così importante come quello dell'intrattenimento digitale.

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