Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Linguaggi e mondo antico
La comunicazione trova le sue radici nei primi grugniti della preistoria e, per quanto ci riguarda, prende le sue origini dal latino e poi dal fiorentino trecentesco.
Vantiamo una tradizione elevatissima, di cui andare fieri; tra i nostri antenati possiamo vantare calibri come Catullo, Orazio, Ovidio e poi Dante, Petrarca e Boccaccio... niente male!!
Ma le parole in quanto tali devono esprime un qualcosa di concreto, oggetto o pensiero che sia. Perciò ritengo che abbiano dei limiti, confini.
Va da sé il fatto che se non esistesse questa “convenzione” non ci sarebbe comprensione.
Per superare tali confini ed arrivare ad una forma di comunicazione “superiore” sono stati necessari vari artifici, tra cui la sinestesia; la fusione dei linguaggi delle varie arti. Il messaggio evocato dalla sinestesia raramente è decifrato nella medesima maniera da tutti e perciò vanta orizzonti più estesi.
L’opera letteraria, ma più in generale l’opera d’arte, si rivolge potenzialmente a tutti i sensi (e ciò è implicito nel concetto stesso di mimesis, imitazione e più precisamente imitazione della natura; e di ekphrasisvariazione e concatenazione di una cosa con l’altra; e la sinestesia è il più delle volte realizzata attraverso metafore o artifici stilistici, oppure è affidata a più argomentati parallelismi, confronti e rapporti indagati da filosofi e retori.
Si può ricordare un passo di Cicerone significativo per quanto riguarda l’oratoria: L’orazione è abbellita anzitutto dal suo stile in generale, e da una specie di inerente colore e sapore. non ne dobbiamo spargere in modo uniforme in tutto il discorso; dovremo invece distribuirli come fregi e luci in una decorazione.
La vista e l’udito sono i sensi forniti dagli dei all’uomo perché egli possa osservare e percepire i movimenti celesti, ordinati e armonici, e conformare a essi i movimenti del proprio essere.
L’occhio e l’orecchio colgono i movimenti che producono armonia. La vista è il senso a cui, come è noto, la cultura greca ha dato più risalto: l’altro senso che più contribuisce allo sviluppo intellettivo dell’uomo è l’udito, come sottolineano Platone e Aristotele; anche al tatto è riconosciuta da Aristotele, in alcuni contesti, una funzione molto importante.
I concetti di mescolanza e di consonanza e soprattutto l’accento posto sulla nozione di movimento hanno contribuito a rafforzare l’analogia tra colore e suono.
Il periodo dei Veggenti
Tra fine ‘800 e primi del ‘900 si registra il periodo di maggiore ricerca intorno al fenomeno della sinestesia: l’ audition colorée divenne una vera e propria moda nella scienza, nella poesia, nel teatro, nelle arti.
L’interesse per questo “amalgama sensoriale” coinvolse psicologi, musicisti, pittori, poeti e linguisti.
Linguaggio della musica e quello dei colori si sono spesso contesi il ruolo di linguaggio universale; le fonti antiche hanno poi costituito uno dei punti di riferimento per il loro incontro nelle varie epoche e nei vari autori. Il pioniere si può identificare in Aristotele (o un suo discepolo) I due trattati del Corpus Aristotelicum sui Colori e sui Suoni hanno infatti per tema gli oggetti specifici della percezione visiva e acustica, la cui frequente associazione ha più volte trovato espressione anche attraverso efficaci metafore e figure stilistiche in molte culture di ogni epoca.
I colori “primari” sono presenti in ogni combinazione armonica e spesso sono disposti in modo complementare; il tono delle tinte determina la loro armonica giustapposizione.
L’idea che la luce modificata formi i colori, così come il movimento – suono modificato e modulato forma i toni musicali, e che nella mescolanza dei colori possa consistere essenzialmente la pittura, così come nella mescolanza dei toni la musica, s imporrà sempre di più nel tempo.
Ma soprattutto, si è sempre di più riconosciuta la capacità dei suoni e dei colori di giungere direttamente all’anima e di ispirare idee ed emozioni: il loro linguaggio stabilisce un diretto contatto con l’anima, con il mondo interiore e spirituale dell’uomo. L’uomo ha in sé la musica, che gli è associata in modo naturale, come è stato ripetutamente sottolineato; inoltre, la musica e la pittura sono state in genere considerate le arti più affini: esse sollecitano sia i sensi sia l’intelletto; così, la forza psichica riconosciuta al colore e alla musica ha sviluppato nel tempo la tendenza a una più ricorrente e significativa associazione tra colori e suoni, più che tra altre impressioni sensoriali.
Poeti maledetti
Sono senz’altro personaggi che si pongono fuori e contro il rispetto delle regole vigenti, come tutti i grandi innovatori del resto.
Non hanno mai dato vita ad una “scuola” che detti cattedraticamente norme e precetti.
Appaiono “maledetti” soprattutto agli altri, per la rivolta e l’emarginazione in cui essi stessi, in gran parte, si confinano; tali si sentono e si mostrano nella loro impresa “demoniaca”.
Baudelaire fu il padre di questo modo di essere e di porsi nei confronti dell’arte: tutti i suoi Fiori del male costituiscono una novità tanto scandalosa quanto affascinante..
La “chanson grise” di Verlaine mette in contatto un sostantivo musicale con un aggettivo cromatico. Si tratta di una sinestesia, non certo nuova nella letteratura francese (da Ballanche a Baudelaire) ma che Verlaine privilegia ed applica in maniera abbastanza costante.
“Grise” designa stupendamente il colore, ma anche direi il sapore, e lo stato, l’essenza della poesia verlainiana, la zona neutra o intermedia appunto del sogno, con il rifiuto del segno netto, del bianco e nero: un punto labile e sfuggente di congiunzione e di separazione, fra il preciso e l’impreciso, la determinazione di una sfumatura, la logica di un sentimento. Ma designa anche un altro confine, fra la lucidità e l’ebbrezza, fra il controllo e l’abbandono completo.
Rimbaud
“Il battello ebbro” incarna bene la personalità e “stile” del poeta. Il titolo già denota un accostamento con la caratteristica peculiare dei poeti maledetti; l’ebbrezza come strumento, uno dei tanti, per giungere alla “quintessenza” e farsi così veggente.
Poeta veggente:
«Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.
Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, - e il sommo Sapiente! - Egli giunge infatti all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e quand'anche, smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l'altro si è abbattuto! [ … ]»
Meta della poesia è "giungere all'Ignoto", ovvero, con altra formulazione, "scrutare l'invisibile, udire l'inaudito".
Pascoli e la via dell’ignoto
Come ha ricordato recentemente anche Enrico Ghidetti, non conosciamo esattamente quali siano state le “lettere di formazione” di Pascoli. Si può supporre che conoscesse qualcosa di quella straordinaria stagione partita con Baudelaire e continuata con i simbolisti, poeti maledetti in primis: sicuramente conosceva alcune poesie di Poe, che tentò anche di tradurre, come ad esempio “ Il Corvo” Famoso per la sua musicalità e l'atmosfera sovrannaturale, racconta della misteriosa visita di un corvo parlante (che dice solo “Mai Più”) a un amante turbato, tracciando la sua discesa nella pazzia: una tematica cara in Italia alla Scapigliatura, che non per nulla fu il primo movimento a diffondere Poe.
Non sappiamo se certi esiti tipici del linguaggio pascoliano e certe particolarità della sua poetica gli siano state “suggerite” dai poeti maledetti o se vi sia giunto per altre vie. Certo è singolare questa coincidenza nel nome di Poe con un movimento, come la Scapigliatura, che sembra avere a uno sguardo superficiale poco a che fare con Pascoli, ma che guarda caso si trova sempre in qualche modo presente nella cultura italiana del secondo Ottocento.
Ma c’è qualcos’altro. Tra gli Scapigliati il più attento a effetti linguistici particolari e sinestetici è Arrigo Boito, che giunse addirittura a teorizzare una precisa tabella di corrispondenze suoni – colori. Felice del Beccaro scrive a proposito del rapporto tra poesia e musica in Pascoli: «Non si esclude che soprattutto l’attività di Arrigo Boito possa essere stata presente al Pascoli nel senso di una poesia intesa come musica …» Certo, sono solo ipotesi, ma nel caso di Boito si può dire anche qualcosa di più, se si pensa che Pascoli ebbe a un certo punto l’idea di scrivere un libretto che fosse, per certi aspetti, un proseguimento e una rielaborazione del Mefistofele, come dimostrò un articolo apparso sul Giornale d’Italia del Novembre 1924 a firma di Achille Benedetti.
Sono tracce che certo richiedono ben altre conferme e non possono certo dimostrare che Pascoli abbia ricevuto dalla Scapigliatura suggestioni di origine Baudelairiana o di Poe. Certo è del tutto assente dalla poesia di Pascoli la formidabile e amara ironia boitiana; Pascoli avrebbe potuto condividere con Boito la pietà per la giovane morta finita sul tavolo anatomico in Lezione d’anatomia, ma non l’avrebbe mai conclusa con il crudele fulmen in clausola che non sarebbe spiaciuto a Baudelaire:
Perdona o pallida
Adolescente!
Fanciulla pia,
Dolce, purissima,
Fiore languente
Di poësia!
E mentre suscito
Nel mio segreto
Quei sogni adorni,...
In quel cadavere
Si scopre un feto
Di trenta giorni
Ma sono comunque elementi che fanno riflettere al grande debito che nei confronti della tanto a torto svalutata Scapigliatura sembrano avere anche i maggiori artisti di fine Ottocento.
Può sembrare paradossale; il massimo di trasgressione che il poeta romagnolo si concedeva consisteva, come ricordava malignamente il suo amico-rivale d’Annunzio, nel fiasco. Cosa avrebbe pensato Pascoli di una affermazione come quella contenuta nella celebre lettera del Veggente:
“Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, - e il sommo Sapiente”.
Probabilmente, l’avrebbe per certi aspetti condivisa, anche se certo si sarebbe espresso in termini diversi. Anche per Pascoli, infatti, il poeta ha una sensibilità che è ignota, o meglio sopita negli altri esseri umani.
A parte i noti passi del Fanciullino, c’è una lirica pascoliana che può presentare qualche affinità con il celebre passo rimbaudiano:
Sapienza (da Myricae)
Sali pensoso la romita altura
ove ha il suo nido l’aquila e il torrente,
e al centro della lontananza oscura
sta, sapïente.
Oh! Scruta intorno gl’ignorati abissi:
più ti va lungi l’occhio del pensiero,
più presso viene quello che tu fissi:
ombra e mistero.
La poesia viene comunemente interpretata come l’espressione di una impossibilità della conoscenza: Con una stupenda immagine quasi nietzschiana, il sapiente sull’alto di una montagna, può solo constatare l’impossibilità di squarciare il velo dell’abisso, quindi di conoscere il mistero della natura e in definitiva della vita. Sembrerebbe una concezione antitetica a quella rimbaudiana, ma se la lirica volesse alludere invece a un limite della conoscenza razionale, ma non di quella intuitiva?
Tutto dipende dal valore che diamo a quel presso. Intanto, notiamo che in entrambi i passi si parla di un sapiente; se con quel presso Pascoli alludesse non a un allontanarsi, ma a un avvicinarsi alla comprensione del mistero, riservata solo al sapiente – poeta, grazie alla “conoscenza intuitiva?”
E’ un interpretazione, certo, che però il testo autorizza. Proprio il linguaggio analogico, che mette in contatto realtà lontane tra loro, rende spesso difficile la lettura univoca dei testi pascoliani. Ma sicuramente uno degli elementi di contatto tra questi artisti è la sinestesia. Anche qui si fa spesso riferimento a Corrispondenze di Baudelaire e al sonetto delle vocali di Rimbaud, caso che ho già analizzato nel mio saggio nel libro Corrispondenze; ma non c’è certo solo questo.
Pluvioso, irritato contro l'intera città, versa dalla sua
urna
a grandi zaffate un freddo tenebroso sui pallidi abitanti
dei vicino camposanto,
rovesciando, sui quartieri brumosi, la morte
(Baudelaire, Spleen I)
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Ghiacciai, soli d'argento, flutti di madreperla, cieli di
brace!
E orrende secche al fondo di golfi bruni
dove serpi giganti divorati da cimici
cadono, da alberi tortuosi, con neri profumi! [...]
Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
l'acre amore m'ha gonfiato di stordenti torpori.
Oh, che esploda la mia chiglia! Che io vada a infrangermi nel mare! (A . Rimbaud, Il battello ubriaco)
Si tratta di testi dove i poeti senza dubbio esprimono le loro “visioni”: in Spleen, ad esempio, dove il gelo e la tenebra unite sinesteticamente insieme designano un cupo scenario di morte e una vera e propria “discesa all’inferno” del poeta. Neri profumi e sole amaro evocano il triste risveglio del poeta dalle sue visioni. Quasi sempre dunque la sinestesia introduce immagini angosciose, allucinazioni o deliri, tanto che c’è chi ha pensato che esse possano in parte derivare dall’uso di sostanze stupefacenti. Ma se questo può essere vero per Baudelaire. e Rimbaud, un po’ più difficilmente lo sarà per Pascoli …
Pascoli e il suo linguaggio
Nei suoi testi poetici di Pascoli la coordinazione prevale sulla subordinazione, di modo che la struttura sintattica si frantuma in serie paratattiche di brevi frasi allineate senza rapporti gerarchici tra di loro, spesso collegate non da congiunzioni, ma per asindeto:
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile
(Novembre)
La frantumazione pascoliana, rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell’esperienza, il prevalere della sensazione immediata, dell’intuizione, dei rapporti analogici, allusivi, suggestivi, che indicano una trama di segrete corrispondenze tra le cose, al di là del visibile. E ben noto poi l’uso dell’onomatopea e del linguaggio c.d. “pregrammaticale”, studiato da Gianfranco Contini, che però non si inquadra perfettamente nel nostro contesto e ci prenderebbe troppo tempo.
La conseguenza di tutto ciò è che, come ha osservato Edoardo Sanguineti, gli oggetti più quotidiani e comuni, visti attraverso quest’ottica, presentano una fisionomia stranita, appaiono come immersi in un’atmosfera visionaria, o di sogno.
Ma è il linguaggio analogico il punto di forza del Pascoli maggiore. Il meccanismo è quello della metafora, la sostituzione del termine proprio con uno figurato, che ha col primo un rapporto di somiglianza. L’analogia pascoliana, come quella dei simbolisti, non si accontenta di una somiglianza facilmente riconoscibile,: accosta invece in modo impensato e sorprendente due realtà tra loro remote, eliminando per di più tutti i passaggi logici intermedi e identificando immediatamente gli estremi, costringendo così ad un volo vertiginoso dell’immaginazione. Ad esempio nella poesia Temporale, appartenente a Myricae, sullo sfondo nero del cielo temporalesco spicca la nota bianca di un casolare, che viene di colpo accostata al bianco di un’ala di gabbiano:
Nel nero un casolare/ un’ala di gabbiano
E nell’ambito del linguaggio analogico si distingue la sinestesia pascoliana. Questa fonde insieme, in un tutto distinto, diversi ordini di sensazioni. Alcuni esempi: voci di tenebra azzurra (il colore diviene una voce [ndr]) / soffi di lampi.
Queste soluzioni formali, che introducono cospicue innovazioni nel linguaggio poetico italiano, aprono la strada alla poesia del Novecento Ma è possibile ipotizzare un uso della sinestesia in Pascoli simile a quello dei poeti francesi? Se senza dubbio l’idea del veggente, anche se espressa in termini diversi, è comune a entrambi, possiamo scorgere anche un comune uso di mezzi espressivi?
Farò solo alcuni esempi, ma la campionatura potrebbe essere più vasta.
Ne l’Assiolo e Novembre, la sinestesia si associa quasi sempre a una sensazione angosciosa: il soffio di lampi, dal nero di nubi laggiù vanifica la sensazione apparentemente positiva dell’alba di perla con una nota di minaccia lontana e sconosciuta, mentre se l’odorino amaro in Novembre è solo un’illusione, il cader fragile delle foglie preannuncia la conclusione e il vero senso della lirica, quell’ossimorica estate fredda dei morti che rivela la presenza della morte dietro l’apparenza della vita.
Ma vediamo qualche altro esempio: La Civetta, da Myricae: le prime due strofe:
Stavano neri al lume della luna
gli erti cipressi, guglie di basalto,
quando tra l'ombre svolò rapida una
ombra dall'alto:
orma sognata d'un volar di piume,
orma di un soffio molle di velluto,
che passò l'ombre e scivolò nel lume
pallido e muto; (…)
C’è una sinestesia auditiva/tattile (soffio molle) ; la seconda (lume muto) visiva e (per così dire) sonora. La civetta , al suo passaggio, porta con molta chiarezza una minaccia che incombe sulla vita custodita nei nidi al riparo dei cipressi:
E sopra tanta vita addormentata
dentro i cipressi, in mezzo alla brughiera
sonare, ecco, una stridula risata
di fattucchiera:
una minaccia stridula seguita,
forse, da brevi pigolii sommessi,
dal palpitar di tutta quella vita
dentro i cipressi (…)
Si potrebbe ancora citare il finale di questa lirica o le celebri voci di tenebra azzurra de La mia sera, ma preferisco concludere con un esempio più significativo e celebre, il finale della Digitale Purpurea: il “fior di morte” tra i testi più perversi della nostra letteratura, che è stato più volte accostato a opere di Baudelaire e Rimbaud. Senza ripercorre la complessa tematica del “fior di morte” e del suo significato, resta il fatto che la drammatica conclusione del poemetto è preceduta da un’immagine fortemente sinestetica:
Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido…) si muore!
Soffiava luce di baleni silenziosi.
L’esperienza proibita del “fior di morte” è preannunciata ancora una volta dall’accostamento di immagini auditive e visive, che danno alla scena una connotazione inquietante e quasi “infernale”. E ancora una volta, un riferimento alla morte …
Si direbbe dunque che l’impiego della sinestesia come strumento del “veggente”, con una connotazione spesso, anche se non sempre, cupa e angosciosa sia un tratto comune a Pascoli e ai grandi decadenti francesi. Se si trattasse di una coincidenza, o meglio di una …. corrispondenza (come probabilmente fu) sarebbe ancora più interessante. Ma certo si può dire che anche la Digitale sia un fiore del male come quelli del perverso e affascinante giardino di Baudelaire.