Jim Colosimo
O sciuscià o con la Mano Nera
Al gangster italo-americano fu negata la sepoltura in terra consacrata
di Angelo Iacovella
Jim Colosimo
A Chicago, prima della Grande Guerra, gli italiani
avevano un solo modo per alzare qualche dollaro in più con cui togliersi uno
sfizio: lavorare per la Mano Nera. L’alternativa era spaccarsi la schiena
lustrando le scarpe o vendendo giornali agli yankees per le strade polverose
dell’Illinois. Jim Colosimo, oriundo calabrese, non era tipo da piegarsi a un
lavoro da emigrante.
Ragion per cui, si gettò prima nel racket delle piccole estorsioni, a danno di
macellai o venditori di liquori. Poi, siccome gli piacevano le femmine, si mise
in società con Hinky Dink e Bath House, due grassi e corrotti consiglieri
comunali, che non volevano sporcarsi le mani in prima persona. Le sue
quotazioni da gangster salirono alle stelle quando, nel 1910, dopo aver gestito
i migliori bordelli della città ed essersi arricchito, gli venne in mente
l’idea di aprire un ristorante, al numero 2126 di South Wabash, nella zona più
"in" della città. Uomini politici, sindacalisti e boss mafiosi quasi
fecero a pugni per partecipare all’inaugurazione del “Caffè Colosimo”, perché
sapevano che da Jim avrebbero trovato gli chef migliori e le bambole più
disponibili.
Quando, nel 1920, arrivò a guadagnare la bellezza di 50.000 dollari al mese,
suo nipote Johnny Torrio, sangue del suo sangue, decise che era venuto il
momento che Jim si togliesse una volta per tutte dai piedi e gli piantò una
pallottola nel cranio, proprio qui, dietro l’orecchio destro. Era la notte
dell’11 marzo, e il feroce malavitoso di Chicago stava tornando a casa per
tuffarsi nelle braccia della sua seconda moglie, una ballerina americana di
diciannove anni dalle curve niente male. L’arcivescovo locale, dopo il
funerale, negò alla salma una sepoltura in terra consacrata, non perché fosse
stato un assassino matricolato, ma soltanto perché si trattava, così spiegò, di
un "uomo divorziato". Una cosa imperdonabile agli occhi dei
cattolici.