Maggio Musicale Fiorentino

Il Rosenkavalier a Firenze: un meritatissimo trionfo

Nostalgia, fascino, erotismo, gioia di vivere un po’ Biedermeier, mito della Felix Austria e dell’estate di San Martino dell’impero asburgico...

di Domenico Del Nero

Il Rosenkavalier  a Firenze: un meritatissimo trionfo

Der Rosenkavalier

Una bacchetta davvero imperiale. Zubin Mehta supera se stesso e regala a Firenze una delle interpretazioni più belle della sua lunga permanenza, paragonabile forse a quella ormai lontana del Tristano e Isotta di Wagner di tanti anni fa. E persino un pubblico per tanti versi  ormai di palato grosso come  quello del comunale l’ha compreso e si stretto (con le eccezioni dei soliti cafoni che si alzano addirittura a metà spettacolo o appena il maestro ha posato la bacchetta) attorno al suo direttore – e a un cast di interpreti di primissimo livello – con un affetto e un entusiasmo veramente degni dei grandi eventi.

Basterebbe infatti questa  magnifica edizione del Rosenkavalier  di Richard Strauss per ribadire il fatto che il Maggio Musicale Fiorentino  deve vivere perché, quando è all’altezza della sua tradizione, è degno delle più grandi platee e golfi mistici di tutto il mondo. Certo questo poi non autorizza i tanti sprechi e le tante assurdità all’italiana, ma questo è un altro discorso.

Nostalgia, fascino, erotismo, gioia di vivere un po’ Biedermeier, mito della  Felix Austria e dell’estate di San Martino dell’impero asburgico: tutto questo esprime il Cavaliere della Rosa, sicuramente massimo capolavoro del compositore bavarese, in un connubio per certi versi insuperabile tra modernità e tradizione, avanguardie e ricupero – non però “archeologico” – di forme  musicali del passato.  Tutto questo è riuscito a esprimere Strauss in una partitura scintillante e complessa, dove l’uso sofisticato del lietmotive si accompagna a reminiscenze settecentesche e all’uso di temi di valzer che le danno un sigillo davvero unico di atemporalità. Strauss, con questa partitura  che ha dato voce e forza musicale a una storia divertente e malinconica creata da Hugo von Hoffmanstal  è riuscito a consegnare alle note l’eterno mito dell’impero, con una nostalgia che allora era un presagio e oggi una triste realtà di un mondo perduto che era espressione di una civiltà altissima;  si può  anzi dire che il Rosenkavalier sia il suo monumento in musica.  E sin dalle prime battute di quel preludio che descrive con viva sensualità una notte d’amore, si è subito compreso che Mehta si era impadronito in pieno della magie di Strauss; gli impasti timbrici, i passaggi sinuosi e incantevoli,  la leggerezza straordinaria della strumentazione,   il perfetto coordinamento tra golfo mistico e palcoscenico, come se quest’opera Mehta la possedesse da sempre: invece era la sua prima volta, a cui peraltro si preparava da tempo con grande studio e passione.  “In Strauss la difficoltà e la peculiarità stanno anzitutto nel fatto che occorre liberarsi dalla rigidità del ritmo e assecondare l'espressione lineare, orizzontale della sua musica. Per questo è necessario seguire con la massima cura la parte del canto; cosa che dipende non da ultimo dalla qualità dei cantanti, giacché non tutti i cantanti possiedono l'intelligenza per realizzare tutto ciò che Strauss ha messo nella loro parte”  Parola di Wolfgang Sawallisch,  grande bacchetta anche se forse non sempre apprezzata nella giusta misura: ed  è esattamente quel che è avvenuto nell’edizione fiorentina. Nessuna rigidità o pesantezza:  quattro ore di spettacolo  sono sembrare brillare e sparire nel giro di pochi minuti.

Merito di Mehta anzitutto; ma c’è da dire che tutti hanno egregiamente collaborato al risultato. Dalla regia leggera e incantevole di  Eike Gramss  con le scene di Hans Schavernoch, che evocavano una Vienna tra il ‘700 e il Novecento.  Gramss è stato abilissimo nel far muovere sulla scena il gran numero di personaggi previsti dal  libretto, con una caratterizzazione psicologica ben riuscita di quelli principali. E infine un cast canoro di tutto rispetto: dalla Marescialla seducente (anche sul piano vocale!) e saggia di Angela Denoke,  al frivolo e ingenuo Octavian (che è parte femminile) di Caitlin Hulcup, al gradasso e divertente barone Ochs di Kristinn Sigmundsson;  bravissima anche la Sophie di Sylvia Schwartz, fanciulla apparentemente ingenua  ma in realtà ben decisa  e consapevole dei propri obiettivi. Voci, strumenti e palcoscenico in perfetta sintonia hanno dato vita a uno spettacolo che merita davvero di restare negli annali del teatro.

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