Editoriale

L'importante è vincere, non basta partecipare o classificarsi

Rimane la memoria del primo: l'eroe, il vincitore, il resto è consolazione

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

venti di portata planetaria, come l'Olimpiade in corso, suggeriscono considerazioni che vanno al di là dell'evento stesso. Intanto, ci si potrebbe interrogare sulla possibile corrispondenza tra i risultati sportivi e le condizioni politiche, economiche, culturali delle singole nazioni; ma non siamo ancora ai bilanci finali. Per ora, ci limitiamo a sottolineare come ai primi due posti del medagliere figurino Cina e Usa, due fra i paesi più importanti del mondo; ma potremmo anche ricordare esempi contrastanti, al punto da rendere problematica l’individuazione di regole generali: la Germania ottenne ottimi risultati nel 1936, al culmine della sua rinascita, dopo la sconfitta del 1918, e così pure nei mondiali di calcio del 1954, nel pieno della ricostruzione, dopo l'Anno Zero della guerra perduta nel 1945, mentre sta deludendo oggi che si è conquistata una indubbia egemonia, almeno in Europa. La stessa Italia d’altronde fu bocciata ai mondiali di calcio del 1962 e del 1966, nella fase più brillante della sua crescita.


Qui però vorremmo soffermarci su alcune illuminanti differenze fra i giochi olimpici dell'antichità e quelli di oggi, con particolare riguardo alle nozioni di vittoria e di partecipazione. Nell'età classica, la Vittoria era considerata una divinità e, per un atleta, vincere era l'unico risultato che giustificasse la partecipazione ad una gara. Il vincitore era considerato un semidio e come tale veniva tramandata ai posteri la sua memoria. Un'eco di tale concezione, del resto, sopravvive nel detto popolare “il primo è il primo, il secondo è nessuno”. 


Nel nostro universo mentale, invece, pur restando obiettivo prioritario la vittoria, hanno acquistato valore i secondi, i terzi posti e così via, con tutto il corollario della dialettica - della chiacchiera mediatica? - sulle prestazioni, sulla preparazione, sulle figure di contorno dell'atleta (l'allenatore, la squadra, l'arbitro, perfino la mamma o la fidanzata). La gara perde, in qualche modo, il suo carattere tragico e incontrovertibile, per ricadere nella categoria degli eventi suscettibili di interpretazione, nella dialettica dei percorsi e delle sfumature, sotto una panoplia di risorse non tutte in grado di far colpire il bersaglio. 


Del resto, le Olimpiadi moderne sono nate sotto il motto ingenuo e illusorio del loro promotore, il barone De Coubertin: l'importante non è vincere, ma partecipare. A smentirlo - e non solo nello sport - ci penserà la vita, con il suo carico di frustrazioni e delusioni in agguato (ma anche di remunerazioni...) legate ai successi e agli insuccessi. E allora, eccoci a rallegrarci per questa o quella medaglia d'argento o di bronzo. 'Miriamo al podio', si sente dire, nel migliore dei casi, dai diretti interessati e dai dirigenti delle varie Federazioni. Ma chi si ricordera' mai del secondo o del terzo, in una qualunque disciplina olimpica? I greci antichi sarebbero inorriditi come davanti a una bestemmia, al solo sentire una simile affermazione. Si gioca, si gareggia, si combatte per vincere, che diamine! D'altra parte, non lo recita forse il nostro inno? “Dov'è  la Vittoria, le porga la chioma, che' schiava di Roma Iddio la creò!”


Forse non abbiamo più la forza di sopportare una sconfitta, nemmeno sportiva; forse non abbiamo più la capacità di impegnarci, di esercitare uno smarrito spirito di sacrificio, per ottenere il risultato migliore. Così, ci siamo costruiti un mondo - non solo nello sport - dove qualche frutto lo produce anche la mediocrità di un quarto posto - di una promozioncella? Di una piccola gratifica? Di un sia pur modesto ingaggio? - insomma, di una partecipazione - ecco la parola decoubertiniana - senza infamia e senza lode, ma con un po' di peculio. Magari si gareggia per un contratto pubblicitario, che sembra non essere negato a nessuno e che fa da foglia di fico per ricoprire le ultime parvenze di dilettantismo (ecco un palese tradimento dello spirito decoubertiniano!).


Già, perché ai Giochi Olimpici, ormai da tempo, partecipano anche celebrati e ricchi campioni dello sport professionistico… Così, anche per gli olimpionici senza medaglia, ma con un lauto contratto, nelle rispettive discipline - da coltivare fuori dalle Olimpiadi e dal loro antico spirito - i Giochi costituiscono una proficua occasione di guadagno. Con buona pace di Olimpia e di De Coubertin.


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