Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Madonna di Monetevergine
In diversi luoghi dell'Italia, fra il 7 e l’8 di settembre, si festeggia la Natività della Beata Vergine Maria con cerimonie particolari che hanno come tema la luce perché secondo i cristiani la nascita della Madonna simboleggia l’albeggiare della nuova Luce che suo Figlio ha portato all’umanità.
A Firenze la si celebra infatti con migliaia di lampioncini di carta colorata, portati dai ragazzi per le vie della città o lasciati sulle acque dell’Arno, detti “rificolone”. Il nome sarebbe la deformazione di “Fierucolone”, e cioè le contadine che una volta si recavano a Firenze, con sgargianti abiti della festa, a vendere fichi nella fiera dell’8 settembre in onore della Madonna: arrivavano la sera della vigilia e, per illuminarsi il cammino, portavano le “rificolone”, ossia lampade di carta appese alle canne.
Invece a Mistretta, in provincia di Messina, si festeggia “ra Madonna a luce” con due giganti di cartapesta che girano per il paese ballando prima di recarsi alla chiesetta della Madonna. Dopo la cerimonia religiosa si esibiscono in un ballo caratteristico a suon di tamburo e infine la sera accompagnano la statua in processione per le vie del paese. I festeggiamenti si concludono con un grande falò detto “la Luminaria”.
Rimanendo in Sicilia, nel tardo pomeriggio del 7 settembre, migliaia di pellegrini salgono al santuario della Madonna Nera di Tindari, una statua che secondo la tradizione sarebbe giunta sul colle all’epoca degli iconoclasti bizantini, verso la fine del secolo VIII o nei primi decenni del IX.
Una leggenda narra che una tempesta costrinse la nave che portava l’immagine a rifugiarsi nel porto di Tindari da dove non riuscì più a partire se non dopo avere scaricato il simulacro: ma probabilmente la statua vi era giunta da Bisanzio perché Tindari, sede di diocesi in quel periodo, fece parte dell’impero d’Oriente dal VI al IX secolo d.C.
Fra i tanti miracoli attribuiti alla Madonna il più celebre è quello di una donna di Patti che era salita al Santuario insieme con la sua bambina. Si racconta che la donna, vedendo l’immagine dal volto nero, provò un senso di disgusto: - Non potrei mai pregarla! Esclamò.
Ma, mentre usciva dalla chiesa, si accorse che la bambina, rimasta a giocare sul sagrato, era scomparsa: disperata perché la credeva caduta dalla rupe a strapiombo di Tindari, la donna rientrò nel santuario invocando alla Madonna Nera la salvezza della figlioletta.
Quando uscì piangente dalla chiesa vide che ai piedi della rupe il mare, prosciugandosi improvvisamente, aveva formato dei laghetti mentre una lingua di terra che s’insinuava nell’acqua tracciava la sacra immagine della Vergine: la bimba se ne stava tranquilla in un angolo di quella insolita spiaggia a giocare con la sabbia.
La sera della vigilia della festa migliaia di pellegrini portano varie offerte, fra cui i gli “ex voto” per grazia ricevuta: lungo la salita decine di bancarelle vendono frutta secca, giocattoli, immaginette e medaglie della Madonna e anche i “curdeddi”, e cioè fettucce di stoffa colorata che i fedeli, dopo averle fatte benedire, si legano al braccio come talismani.
“Salendo cantavano un canto incomprensibile che, dalla testa rimbalzava alla coda della schiera, s’incrociava nel mezzo, s’aggrovigliava”, scriveva Vincenzo Consolo.
Dopo la celebrazione della messa, fra canti, inni sacri e
invocazioni, si svolge sulla piazza la processione con la sacra immagine della Madonna Nera di
Tindari.
Madonna di Tindari
Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore...
La luce è anche la protagonista nei festeggiamenti della Natività di Maria a Moliterno, in provincia di Potenza, dove la Madonna del Vetere viene accompagnata in processione da ragazze vestite di bianco che portano sul capo le cosiddette “cente” e cioé minuscole cappelle con decine di candele accese.
Ma in questi giorni si svolge anche uno dei più celebri pellegrinaggi del Sud dell’Italia Campania: quello al Santuario della Madonna di Montevergine che dista una ventina di chilometri da Avellino. È il più popolare di tutta la Campania, tant'è vero che Raffaele Viviani ne scrisse una celebre commedia musicale.
Ancora oggi, più di un milione di emigranti campani giunti da ogni parte del mondo, si riversano ogni anno nel mese di settembre a Montevergine: il santuario, circondato da una foresta di faggi, si trova sull’omonimo monte a più di milleduecento metri di altezza, e merita una visita anche da chi non è credente perché, oltre a trovarsi in un luogo da cui si vede tutta l’Irpinia, è antichissimo. Fu fondato nel secolo XII da san Guglielmo da Vercelli e all’interno della costruzione, di grande interesse architettonico, ci sono moltissime opere d’arte.
Natività di Maria
Ma i pellegrini, diversamente dai turisti, si recano a Montevergine soprattutto per venerare la grande tavola della Madonna, soprannominata popolarmente “Mamma Schiavona” per il colore bruno, simile a quello degli schiavi saraceni: una sacra immagine ritenuta protettrice dei sofferenti, anche per amore, e dunque patrona dei fidanzati.
I gruppi di pellegrini vi arrivano la vigilia della festa e, dopo una lunga veglia all’aperto, durante la quale si beve, si mangia, si balla e si canta al suon dei tamburelli, salgono al santuario verso le sei del mattino cantando lungo la “Scala Santa”. Arrivati davanti alla sacra immagine di “Mamma Schiavona”, e dopo aver pregato, escono dall’altro lato della chiesa sempre cantando e danzando accompagnati dal tamburello.
Quanto alla Madonna di Montevergine, una tradizione tardiva sostiene che la tavola dove è dipinta la Vergine, mentre dà il latte al Bambino tenendo nella mano sinistra un rotolo di pergamena, risalga al tempo di Guglielmo da Vercelli che visse in quel santuario fino al 1128.
In ogni modo, quel che colpisce in questa sacra immagine, e anche in quella custodita a Tindari, festeggiate all’insegna della Luce, è il colore oscuro del loro volto che lo si ritrova in oltre 450 raffigurazioni della Vergine sparse per tutto il mondo cristiano: sono le cosiddette “Black Virgins”, le “Madonne Nere”.
In Europa si trovano per esempio in Francia a Chartres, a Le Puy o a Rocamadour; e poi in Svizzera con la Madonna di Einsiedeln.
In Spagna sono ritenute “Vergine Nere” la celebre scultura di Nostra Signora di Regla, la Virgen de Calatayud, quella catalana di Monserrat, la Candelaria di Tenerife, la Madonna di Covadonga, la “moreneta” Virgen de Guadalupe patrona dell’Estremadura, o la madrilena Virgen de Atocha.
Mentre in Italia, oltre alle due citate sul colle di Tindari e in quello di Montevergine, ci sono fra le altre, l’Incoronata di Foggia, la Madonna di Crotone in Calabria, quella di Cagliari in Sardegna oppure la Madonna di Oropa nel Piemonte.
Come anni fa ho spiegato nel mio libro “Le tre facce della Luna. Modelli e archetipi della donna attraverso i secoli” (Camunia Editore), si tratta di statue d’origine arcaica oppure d’icone di fattura bizantina, ritenute dappertutto fra le più miracolose e oggetto in genere di culti molto radicati.
Sono immagini di colore bruno, grigio scuro o totalmente nere, ma ciò che è importante non è tanto la tonalità quanto il significato profondo e il simbolismo archetipico del loro colore definito “nero”.
Un colore che nei secoli ha perso il suo simbolismo positivo, di “rigenerazione”, per diventare quello del lutto o delle oscure potenze del male. Il colore “ctonio”della terra feconda, di tante antiche custodi di culti ancestrali che le volevano matrici di tutte le cose.
Il colore di Iside, Cibele, Demetra, Artemide o della “Matres” celtica, diverse epifanie di un’unica divinità: la Grande Madre enneade della Terra, dei Cieli e degli Inferi, la non-manifestata, e perciò chiamata Vergine Nera, la Luna con i suoi tre volti.
Il suo culto persisterà nella Madonna Nera medioevale, “nera ma bella” come recita d’altronde una dicitura incisa sul basamento della statua di Tindari: “Nigra sum sed formosa”.
Le stesse parole che la sulamita dice all’amato nel “Cantico dei Cantici”, “Nigra sum sed formosa”, “nera sono ma altresì bella”:
Nera sono
ma altresì bella,
o figlie di Gerusalem,
nera
come le tende di Kedar,
bella
come i padiglioni di Salma.
Non state a guardare se sono nera,
bruciata dal sole.
I miei fratelli sono sdagnati con me;
mi hanno messo a guardai delle vigne,
ma la mia vigna, la mia, l'ho trascurata.
(Cantico dei Cantici, I, vv.5-6)
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