Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Enrico Berlinguer, Silvio Berlisconi, Renata Polverini, Nichi Vendola, PierFerdinando Casini, PierLuigi Bersani
Quel tratto fondamentale del pensiero berlingueriano che merita di essere capito, oggi più che mai, è la questione morale. Ed è proprio l’eccesso di moralismo come caratteristica distintiva del Pci che la Direzione del Partito rimprovera a Berlinguer. Soprattutto dal 1980 il Segretario è indebolito, in Direzione dispone spesso di pochi voti di maggioranza. A volte la spunta di misura, altre abbandona il terreno della lotta intestina. Nell’autunno del 1980 il leader comunista compare ai cancelli della Fiat dichiarando che il Partito appoggia i lavoratori che vogliono occupare la fabbrica. E lì si scontra con la contrarietà della maggioranza della Direzione e con Luciano Lama, consapevole che un’occupazione dello stabilimento avrebbe decretato la “rovina degli operai”[1].
Insomma, ogni sua posizione incontra un’opposizione diffusa, generalizzata, all’interno del Partito. I molti quadri che non condividono la sua politica (e non lo dicono) si rifiutano di convincere la base. Questi funzionari, stipendiati dal Pci scelgono l’unica opposizione che non mina il posto di lavoro: quella silenziosa.
Come ben osserva Tommaso Giglio, la Segreteria di Berlinguer è la “Segreteria della solitudine”, dove il Segretario parla poco e solo con i pochi intimi, in gran parte cattolici. Nel vuoto politico intorno a lui si fanno strada gli arrivisti. Neppure il Pci, da questo momento, è immune dal carrierismo spietato, dal conformismo e dalla piaggeria “di ostacolo al confronto e all’approfondimento”, come osserverà il rivale più acceso (ma non in questo ambito) Armando Cossutta.
E’ Davide Lajolo a inquadrare magistralmente il fenomeno: “In questo clima avevano il sopravvento quegli elementi delle nuove generazioni, più furbi che intelligenti, i quali invece di far vivere democraticamente il partito per un costante rinnovamento hanno creduto di modernizzarlo con il managerismo e con il naturale cinismo di chi non poteva avere alle spalle né sofferenze né esperienze vincolanti. Questi hanno portato nel Pci l’aridità dei loro studi e un carrierismo più coperto ma non meno nocivo di quello che le stesse generazioni dimostravano nel campo borghese”[2].
Gli avversari interni temono l’accentuata contrapposizione nei confronti del Psi (non proprio un simbolo di moralità) e quindi un allontanamento delle possibilità di andare al governo, ovviamente nei termini di una coalizione Pci - Psi[3].
Questione morale per Berlinguer significa anche battersi contro l’anarchia, contro il libertarismo sfrenato e senza regole che può diventare un boomerang politico, aspetto che non tutti a sinistra e nel Pci hanno ben chiaro: “Non siamo per una società di bigotti e di puritani; ma non siamo nemmeno per una società dove tutto sia lecito, dove vige la tesi che ogni istinto deve essere sempre seguito, invece che razionalmente controllato. Queste teorie libertarie sono droghe pseudoculturali nocive quanto le droghe che si vendono e si consumano; sono anch’esse un prodotto del capitalismo e fanno aumentare il disordine e la criminalità, dissolvono, sciupano e fanno deperire ogni autentico rapporto umano e familiare... Vi è chi pretende che il delitto, il crimine, il diffondersi della droga, l’isolamento degli uomini, l’estraneità dell’uno verso gli altri, il disgregarsi e il corrompersi dei valori sarebbero il portato inevitabile dello sviluppo industriale. Ma questa è una menzogna”. Ecco come il Segretario comunista si esprime nel rapporto al XIII Congresso Nazionale del Pci nel 1972, votato e approvato dallo stesso Congresso[4].
Con la questione morale è evidente che Berlinguer anticipa una risposta concreta e fattiva al distacco tra la società civile e i partiti. E non a caso trova terreno fertile sia presso altre personalità di sinistra come Ugo La Malfa e Sandro Pertini, che presso leader moderati e conservatori come, rispettivamente, Paolo Baffi e Guido Carli[5]. Parlare oggi di un asse destra – sinistra sui valori (quali?) sarebbe improponibile. Al tempo c’è invece chi su questo punto insiste.
Quella di Enrico diventa una vera e propria rivoluzione antisistema quando nel 1981, durante un’intervista concessa a Eugenio Scalfari, accusa pubblicamente il modus operandi partitico italiano. Questa l’invettiva: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal Governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, le università, la RAI-TV, alcuni grandi giornali... tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le operazioni che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica”.
Ancora, scendendo nello specifico: “Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientele; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”.
E infine la proposta specifica in nome del Partito: “La questione morale (dunque) non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale nell’Italia d’oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forza di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche”[6].
L’intento di Berlinguer è chiarissimo, cristallino: liberare le istituzioni della Repubblica dall’occupazione e dalla spartizione partitica, anche per rilanciare il ruolo dei partiti e dare credibilità alle istituzioni nella lotta alla corruzione e alla mafia. Ma anche restituire ossigeno alla produttività. La partitocrazia che il leader comunista vuole combattere a colpi di moralità è la causa di tanti mali economici, sociali e politici dell’Italia, come l’umiliazione delle professionalità, la bassa produttività nell’amministrazione e nei servizi pubblici, la giungla retributiva e il “premio” assicurato al parassitismo rispetto al lavoro produttivo e creativo[7]. Nulla che non sappiamo oggi. Nulla di cui si parlasse in quegli anni.
[1] T. Giglio, Berlinguer o il potere solitario, Sperling & Kupfer, Milano, 1982, p. 4.
[2] Ibidem, pp. 141-143.
[3] L. Barca, L’eresia di Berlinguer. Un programma fondamentale non scritto, Sisifo, Siena, 1992, pp. 63-64.
[4] E. Berlinguer, Unità e autonomia nel movimento operaio e comunista internazionale, in La questione comunista, a cura di A. Tatò, Roma, 1975, Vol. I, p. 414.
[5] L. Barca, L’eresia di Berlinguer. Un programma fondamentale non scritto, cit., pp. 66-67.
[6] “La Repubblica”, 28 luglio 1981.
[7] L. Barca, L’eresia di Berlinguer. Un programma fondamentale non scritto, cit., pp. 69-71.
Inserito da Loredana il 20/09/2012 11:48:37
Oggi come reagirebbe Berlinguer di fronte all'abbassamento catastrofico della politica? E parlo soprattutto di comportamenti e di educazione. Mi sembra di ricordare che ai suoi tempi i politici, ALMENO, non si comportavano peggio delle comari inferocite al mercato, come si vede in alcuni film di Sophia Loren.
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