Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Soldati in Libano
Blu line, fra Libano e Israele, non è il titolo di una canzone, ma il filo sottile che separa la pace della guerra, il passato dal futuro. Nel mezzo ci sta il presente. Un presente complesso, articolato, fatto di caschi di blu e recinzioni elettrificate, pattugliamenti e pastori distratti, comunità religiose e militari armati. Guerra e pace, insomma. Ma non nella visione letteraria di Tolstoj, bensì in quella moderna, dove un confine che non esiste viene tracciato con piloncini blu, attorno ai quali si avvita la speranza.
E la speranza, in Libano, ha il volto dei militari italiani del contingente Unifil, la forza d’interposizione dell’Onu schierata fra il Libano e Israele. Una missione partita da lontano e destinata a proiettare la sua ombra anche nel futuro prossimo, ma che ha radicalmente cambiato pelle, plasmandosi alle esigenze del momento. E quando dei militari modificano il proprio assetto sul terreno divenendo da squisitamente militare a soggetto dialogante fra i due Paesi in eterno conflitto fra loro, significa che la missione è passata, inevitabilmente, sul piano diplomatico.
Solo venendo qui, in Libano, e vivendo da militare con i militari italiani, si capisce quale lavoro stia facendo il nostro esercito. Che di Pulcinella non ha nulla, mentre ha digerito e fatto propri i tratti somatici della grande professionalità, invidiataci anche dagli americani. Ecco, questo è il processo avvenuto in Libano e del quale non se ne percepiscono che echi lontani, disturbati dal quotidiano chiacchiericcio polemico della querelle politica di palazzo.
Per esempio la Rai, in occasione del cambio del comandante e del contingente italiano, ha mandato a Shama (la base italiana in Libano) soltanto un inviato del Gr Radio Rai e uno per i Tg, ma solo le edizioni regionali dei telegiornali manderanno in onda qualcosa. La pace, insomma, non fa notizia.
E proprio perché non fa notizia, non grida, resta in seconda fila con le storie di quotidiano impegno, una missione come quella del contingente italiano in Libano è destinata a trovare spazio sui media solo quando ci scappa il morto. La vera retorica dei tempi moderni non è più quella di una volta, tutta Dio, Patria e famiglia, ma quella che viene usata nei casi limite. Allora tutto diventa nuovamente attuale. E questo ribaltamento delle prospettive ha creato un meccanismo che distorce la percezione, al punto che quando si sente parlare di Libano, nei chiacchiericci da bar come in quelli fra politici, ci si domanda perché mai i nostri militari siano ancora qui.
Perché siamo in Libano? Perché spendiamo ancora tutti questi soldi? Già, perché i nostri militari sono qui? Al netto degli interessi commerciali, molto più elevati di quanto non si possa immaginare, la missione dell’Onu rappresenta l’unica garanzia per la durata di una pace, sia pur instabile, nell’area. E siccome una pace instabile è sempre meglio della guerra, questa missione andrebbe rubricata alla voce lavoro diplomatico. Molto più efficace di quanto non facciano le diplomazie ufficiali. Certo, poi ci sono i risvolti, economici. La stabilizzazione del Libano garantisce all’Italia il primato nei rapporti commerciali. Scambi che a Beirut hanno il loro riflesso nelle insegne italiane dei negozi, dei piccoli e grandi marchi del made in Italy.
Essere su quella linea blu, dove gli israeliani controllano a vista il lavoro dei nostri militari, sminare le aree attorno al confine tracciato dall’Onu, non da Dio né dalla storia, rassicurare le comunità libanesi, da quella cattolica a quella musulmana, significa lavorare per la Pace in senso lato, ma soprattutto significa non fermarsi sulla soglia di casa nella convinzione che quanto avviene nel giardino del vicino non ci riguardi. Le case sono sempre più strette, mentre i giardini si vanno allargando sempre più. Ma per poterlo fare hanno bisogno di essere annaffiati, non distrutti.
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