Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Teschio di zucchero
Tanti anni fa, durante il mio primo viaggio in Sicilia insieme con mio marito, Alfredo Cattabiani che allora ricercava documentazione per il suo fortunato libro “Santi d’Italia” (Rizzoli), eravamo ospiti a Palermo di una famiglia di amici. Era il primo novembre, festa di Ognissanti, ma per loro, come per molti altri siciliani fedeli alle tradizioni della loro terra, era soprattutto la vigilia della commemorazione dei Defunti. Ebbene, l’atmosfera in quella casa non aveva nulla di funebre, anzi i bambini erano eccitatissimi: stavano preparandosi a una festa.
Eravamo sconcertati perché non avevamo mai visto nulla di simile. Ci spiegarono che a Palermo e in altre città siciliane, nella notte fra il 1° e il 2 novembre le anime dei parenti morti abbandonavano i cimiteri e si recavano a frotte nelle botteghe della città a svuotare gli scaffali dei dolciumi da portare ai bimbi delle loro famiglie.
Ed effettivamente, la mattina dopo, i figli dei nostri amici trovarono doni e leccornie, come fosse il giorno della Befana. I dolci poi ci lasciarono stupefatti: erano i cosiddetti “frutti di Martorana”, che imitano perfettamente i frutti veri ma sono confezionati con la pasta di mandorle e poi dipinti.
E c’erano anche i “Pupi di zucchero” pupazzi che raffigurano animaletti, carretti siciliani coloratissimi e anche alcuni personaggi della tradizione palermitana, come Santa Rosalia e i paladini.
Non mancavano neanche le “ossa dei morti” così detti perché hanno la forma di ossa: anch’esse erano di pasta di mandorle e si mangiavano allegramente, anzi si mangiano ancora oggi per la ricorrenza dei Morti.
I nostri amici avevano comprato quei regalini in una fiera che si svolge ogni anno ai primi di novembre in un quartiere popolare di Palermo e che quest’anno è iniziata il 27 ottobre in Piazzale Giotto-Lennon. Ma la “Fera de li morti” si celebra anche in molte altre città della Sicilia, da Catania a Siracusa, da Agrigento a Trapani e nelle coloratissime bancarelle si possono acquistare giocattoli e dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale “Cannistru” per i bambini: i “frutti di Martorana”, appunto, e i “pupi ri zuccaru”, detti anche “pupaccena”, “pupi a cena”, per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in miseria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo prelibato.
A proposito dei “frutti di Martorana”, la loro origine risale all’epoca dei normanni. Si racconta che nel 1193 una nobile signora di Palermo, tale Eloisa Martorana, fece costruire un monastero con il suo nome. Ebbene, in quel luogo, fra il silenzio e la preghiera, le suore avevano custodito il segreto della preparazione del marzapane a base di mandorle e zucchero, al quale davano strane forme, di frutti, coloratissimi: un’eredità degli arabi che esiste anche in Spagna col nome di “mazapàn” e che piacque tanto al re Normannno da essere ribattezzato “pasta reale”.
Ma nel “Cannistru” dei defunti ci vanno molti altri doni come i “crozzi ‘i mottu” (ossa di morto), i “pupatelli” ripieni di mandorle tostate, i taralli rivestiti di glassa zuccherata, i “nucatoli” e i “totò” bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao. E ancora, gli ‘”nzuddi” con le mandorle e il miele, la frutta secca, “le rame di Napoli” che sono biscotti ricoperti di cioccolato fondente o bianco, ripieni con la marmellata di albicocche o con crema di cioccolato.
In alcune parti della Sicilia viene preparata la “muffoletta”, una pagnottella calda appena sfornata “cunzata”, condita, la mattina nel 2 novembre, con olio, sale, pepe e origano, filetti di acciuga sott’olio e qualche fettina di formaggio primosale. Insomma dolciumi e cibi di ogni genere della tradizione siciliana per riempire il “Cannistru” che i defunti lasceranno ai bambini.
L’usanza, che inizialmente può sconcertare molti, perché a prima vista potrebbe sembrare un po’ macabra, non è una prerogativa dei siciliani: la si ritrova anche in altri luoghi dell’Italia come il Veneto e la Sardegna, nel nord della Spagna e, soprattutto, in Messico dove addirittura si confezionano scheletri e teschi di pane.
Della tradizione siciliana ne parla anche Giovanni Verga: “Ogni anno, il dì dei Morti – nell’ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti ...”.
Ma torniamo a Palermo dove ancora molti bambini credono che la sera del 1° novembre i morti si radunino alla Vucciria, il grande mercato palermitano dove una volta si teneva la fiera per il giorno dei defunti, come testimonierebbe una frase proverbiale, “Sapiri la Vuccirìa”, che significa sapere che “li cosi di morti”, i regalini, non sono donati dalle anime dei trapassati ma dai vivi nel loro ricordo.
La fatidica sera i bimbi vanno a letto presto, recitando una preghierina perché i morti li esaudiscano e subito dopo chiudono gli occhi per non dispiacere ai morti che non vogliono essere veduti:
Armi santi, armi santi,
Io sugnu unu e vuatri siti tanti:
Mentri sugnu 'ntra stu munnu di guai
Cosi di morti mittitimìnni assai.
(“Anime sante, anime sante,/ io sono uno e voialtri siete tanti:/ Mentre sono in questo mondo di guai/ Così di doni di morti mettetemene assai”.
A Catania, prima di distribuire i loro doni, i cari estinti passeggiano in processione per le vie recitando il rosario; e nei comuni dell’Etna si trasformano in formiche per entrare nelle case dei loro congiunti. A Salaparuta lasciano i doni alle porte o alle finestre dentro scarpe o canestrini. E durante il loro “viaggio”, così almeno accadeva una volta, le campane suonavano per tutta la notte mentre mamme e nonne, nelle prime ore della sera, narravano a figli e nipoti alcuni episodi dei loro cari defunti.
Insomma, un’usanza bellissima, perché in questo modo quelle “armi santi” della filastrocca infantile, quelle anime sante dei loro cari, non muoiono, non scompaiono: perché nessun essere vivente “scompare” finché esiste la memoria, il ricordo, il racconto di quella persona che, in questo modo, continuerà a vivere in noi.
Perciò occorrerebbe che i genitori raccontassero ai loro figli, anche attraverso le vecchie fotografie, come erano i nonni, i bisnonni, qualche zio defunto, un amico fedele che non è più fra noi.... Continueranno così a essere vivi, quasi vitali.
E poi, quando arriva il 2 novembre, come vuole la tradizione, occorrerebbe commemorarli con gioia, come fanno appunto i siciliani o i messicani, ma anche i friulani, i veneti, e mangiare con loro, alla loro tavola: la “tavola dei defunti” che in tanti luoghi dell’Italia appare quel giorno colma di cibi tradizionali.
D’altronde nel Libro del profeta Isaia c’è scritto:
In quel giorno,
il Signore degli eserciti preparerà su questo monte
un banchetto per tutti i popoli.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia
di tutti i popoli
e la coltre che copriva tutte le genti.
Eliminerà la morte per sempre...
E un vero e proprio “banchetto” per i morti, perché non muoiano mai più - “eliminerà la morte per sempre” scriveva Isaia - viene preparato ad esempio in Friuli e nel Veneto la vigilia del 2 novembre, detta la “Sera delle pore aneme”, la sera delle povere anime. Il piatto principale è il cosiddetto “piato dei morti”, una minestra di fave, castagne e “zuca marina”, che una volta si poneva sul canterano della camera dov’erano vissuti i defunti: d’altronde, si pensava popolarmente, il cibo vuol dire vita e se si è capace di mangiare vuol dire che si è vivi...
Nelle case, ma ora si preparano soprattutto in pasticceria, le donne facevano anche i “trandoti” e gli “ossi da morto”, pane e dolci particolari, impastati con farina e frutta secca. Dolcetti che in Calabria hanno forma allungata e si chiamano “dita di Apostolo”, mentre in Val Passiria (Alto Adige) raffigurano quadrupedi e sono detti infatti “cavalli di pane”.
Ebbene, secondo la tradizione di friulani e veneti, poco prima della mezzanotte del 1° novembre i parenti dei defunti pranzavano - e in alcuni luoghi lo si fa ancora - con la “polenta infasolà”, e cioè polente cotta con una minestra di fagioli molto diluita. Era una forma di comunione con i propri cari perché, secondo una tradizione antichissima conosciuta dai Greci e dagli antichi Romani, le anime dei defunti risiederebbero nei baccelli degli ortaggi, come appunto, i fagioli o le fave, simbolo anche dell’incessante ciclo di vita e di morte.
I Romani però, che avevano un sacro terrore del ritorno sulla terra dei morti - i lemures – perché credevano che avrebbero fatto dispetti ai vivi, celebravano la festa dei defunti, detta Lemuria, gettando dietro le loro spalle mentre camminavano a piedi nudi, un pugno di fave come scongiuro per cacciare via gli spiriti dei defunti. Il rituale è descritto da Ovidio nei Fasti, dove sono riportate le parole che i Romani dicevano: “Getto queste fave e con esse redimo me e i miei parenti”. Si riteneva infatti che le fave fossero il cibo prediletto degli antenati dispettosi e quella cerimonia doveva servire a tenerli lontani e contenti.
Per tutto ciò, in molte cittadine italiane fra cui Roma, c’è tuttora l’usanza di mangiare minestre di fave secche oppure dolcetti a forma di fave, detti “fave dei morti” il 2 novembre, quando la Chiesa commemora “Tutti i Fedeli Defunti”.
Una tradizione che risale alle antiche popolazioni celtiche che celebravano il loro capodanno ai primi di novembre con una festa che durava una decina di giorni detta Samuin, durante la quale si credeva che i morti tornassero sulla terra portando con loro frutti e fiori per provare ai vivi che l’aldilà era il migliore dei mondi, il regno dell’eterna primavera. Per diversi giorni dunque, tutti insieme, vivi e morti, festeggiavano il nuovo anno con giochi e banchetti.
I Celti, come altri popoli antichi, ritenevano che nel teschio del morto fossero depositate energie benefiche per i vivi; per questo motivo in molti Paesi si mangiano dolci a forma di ossa il giorno dei defunti: le “ossi dei morti” in Italia, gli scheletri di zucchero del Messico oppure i “huesos de santo” in Spagna.
Le feste del Samuin erano talmente radicate nelle popolazioni franche e anglosassoni che nemmeno l’evangelizzazione era riuscita ad estirparle, sicché a partire dall’anno 844 i vescovi francesi dichiararono il 1° novembre festa cristiana di Ognissanti e, dal 998, i defunti furono cristianamente commemorati il giorno seguente. Queste due feste furono estese alla Chiesa universale soltanto alla fine del Medioevo.
Ebbene, in memoria dei nostri cari defunti ecco la ricetta delle “FAVE DOLCI DEI MORTI” da preparare per il 2 novembre
* Ingredienti:
180 g di mandorle spellate
30 g di pinoli (facoltativi)
100 g di farina
100 g di zucchero
2 albumi d'uovo
30 g di burro
la scorza grattugiata di limone
2 cucchiai di liquore a piacere 1 pizzico di sale
Riducete in polvere le mandorle e mescolatele con tutti gli altri ingredienti lavorando a lungo il composto per renderlo omogeneo. Ricavate dall’impasto un rotolino, dividetelo in pezzetti e date loro la forma di una grossa fava.
Imburrate e infarinate la placca del forno già caldo a 190°; allineatevi le fave e cuocetele per circa 15 o 20 minuti finché diventino leggermente dorate.
Lasciatele raffreddare e cospargetele poi di zucchero a velo o di cannella in polvere.
Poi, prima di mangiare le fave dolci, dedicate un pensiero affettuoso ai vostri cari estinti: vi proteggeranno!
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