Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Ibn Battûtah
Intense scorribande tra le pagine della letteratura islamica medievale, intraprese per combattere ataviche insonnie, ci hanno casualmente portato a imbatterci nella più antica delle relazioni dei viaggiatori arabi, il cui testo è tanto più prezioso in quanto non ne esiste, presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, che un unico manoscritto, edito e tradotto per la prima volta in francese a cura del professor Jean Sauvaget, con il titolo di Akhbâr as-Sîn wa-l-Hind, Relation de la Chine et de l’Inde (Paris 1948). La paternità dell’opera, ben nota agli studiosi della geografia medievale araba (vedasi sul tema l’impareggiabile saggio di André Miquel, La Géographie humaine du monde musulman, Paris 1967, 4 voll.), è ascritta a un non meglio precisato mercante Sulaymân, che imbarcatosi a Sirâf (sulle rive del Golfo Persico), intorno all’anno 851, e dopo aver toccato Mascate, raggiunse Canton.
Da buon mercante, l’autore, o chi per lui, si comporta da vigile osservatore dei prodotti e dei costumi locali, come risulta dal brano che segue, nel quale si descrive l’uso che i Cinesi fanno di uno strumento denominato jâdum [gau d’oung]: «Non c’è città, in Cina, che non ne abbia. È una specie di corno nel quale si soffia. È lungo e spesso ed ha un diametro pari a quanto due mani riescono a impugnare…; è lungo tre o quattro cubiti e la sua imboccatura è sottile, di spessore tale che un uomo possa tranquillamente portarla alla bocca, il suo suono si estende per circa un miglio; Ogni città ha quattro porte e su ogni porta troneggiano cinque jâdum nei quali si soffia in certi momenti del giorno e della notte, e a ogni porta sono appesi dieci tamburi, che vengono percossi contemporaneamente. Fanno questo per manifestare la loro sottomissione al sovrano e per far conoscere i diversi momenti della notte e del giorno. Dispongono anche di diverse apparecchi per segnare e misurare le ore».
Notizie sul Celeste Impero nell’età di mezzo si ritrovano altresì nella summa geografica del celebre Ibn Battûtah, il Marco Polo dell’Islâm. All’opera in questione (intitolata semplicemente Rihlah, ovvero «Viaggio»), l’autore – vissuto nel XIV secolo affidò il ricordo delle sue instancabili peregrinazioni, che lo portarono dall’estremo occidente alla Cina, passando per l’Indonesia. Egli lasciò infatti il Marocco e la nativa Tangeri nel 1304, per tornarvi ben 24 anni più tardi. Non c’è accordo, tra gli studiosi, circa la veridicità dei suoi resoconti, specie di quelli che riguardano la navigazione interna della Cina, che tornano a noi gravidi di esotismi e mirabilia. Scenario, il paese della Grande Muraglia, di un piccolo evento da cui il nostro Ibn Battûtah rimase particolarmente colpito, là dove racconta della festosa, quasi trionfale, accoglienza ricevuta dai musulmani locali all’atto del suo giungere in quel di Qangianfù, l’odierna Kieng-Ciang-Fu: «Vasta e bella città, circondata da giardini, tanto che sembrava l’oasi di Damasco. Al nostro arrivo, uscì a riceverci il Qâdî, lo Sheiykh al-Islâm e i mercanti, con bandiere e trombe, tamburi e pifferi e musicanti».
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