Editoriale

L’Anarca che seppe essere maestro di chi voleva imparare

Il «mio» Rauti a mente fredda

Giovanni F.  Accolla

di Giovanni F.  Accolla

l meraviglioso non suscita in noi nessuna sorpresa, perché il meraviglioso è ciò con cui abbiamo la più profonda confidenza. La felicità che la sua vista ci procura, sta propriamente nel fatto di veder confermata la verità dei nostri sogni (Ernst Jünger).

Al termine dell’appassionata orazione funebre di Gennaro Malgieri al funerale di Pino Rauti, ho sentito Isabella Rauti commentare, con garbo ma (com’è nel suo carattere) fermamente: mio padre non era un reazionario, né un conservatore. E’ vero. Pino Rauti non centra nulla con la destra borghese, post risorgimentale e conservatrice, nulla ha a che fare con la destra legalitaria, filoatlantica e nenamortista. Rauti è stato scandaloso e rivoluzionario, mai ortodosso, forse mai democratico (nell’accezione comune e applicata ai nostri giorni), perché una cosa è progettare e credere nell’inclusione e nei valori universali, come lui teorizzò e fece, un’altra predicare, tout court, l’egalitarismo ideologico. Il perbenismo, poi, non fu mai una sua opzione esistenziale, nonostante fu un uomo profondamente per bene.  

Più di chiunque altro abbia mai conosciuto, Rauti (ma il “mio Rauti” e non voglio pensare di averne il copyright, perché so bene che questo è il destino dei grandi pensatori: avere molti interpreti) è stato un Anarca. E’ stato il re di sé stesso, finanche il leader politico di sé stesso. L’Anarca è il ribelle singolo, i partigiani sono un collettivo, spiega Junger. Il Partigiano si muove all’interno del partitismo sociale o nazionale, l’Anarca se ne tiene fuori. Peraltro, egli non può sottrarsi al partitismo, poiché vive nella società. Il partigiano agisce ai margini: serve le grandi potenze, che lo equipaggiano di armi e di parole d’ordine. Diversamente, l’Anarca non abbisogna di sorreggere su stampelle ideologiche il suo innato sentimento della libertà e dell’individualità. Al tempo stesso, egli è capace di vivere sotto qualunque regime politico, anche il più tirannico, poiché reca l’autonomia indelebilmente impressa in sé, e l’afferma in ogni sua azione.

Saper credere senza illusioni e forse, addirittura senza speranze. Questo ho appreso dalla lezione di Pino Rauti: mettere il proprio esempio e il proprio onore al centro della propria esistenza, ogni giorno. Aver trascorso, quando avevo quattordici quindici anni, giornate intere a via degli Scipioni (già solo respirare quell’aria), m’ha cambiato la vita, anzi, mi ha dato una vita. Per come la sto spendendo, almeno.

Lì ho conosciuto, ho iniziato a prender confidenza con una costellazione di autori che - seppure nel tempo si è ampliata e cambiata nel giudizio - non ho più abbandonato come riferimento. Codreanu, Drieu La Rochelle, Splenger, Evola, Nietzsche, Eliade, Mishima, Junger, Pound, Adriano Romualdi… di lì in poi ogni lettura (Sallustio, Noica, Cioran, Caraco, Pasolini e Camus per giunta, ma tutto, proprio tutto anche Adorno, Benjamin perfino Toni Negri!) sono state assorbite attraverso quel filtro, attraverso quel particolare tipo di lenti. A Rauti debbo l’aver determinato il meccanismo oscuro e dirompente, l’emozione, l’esplosione piena di responsabilità, che ha sortito nel mio cuore e nella mia mente un io.

Entrare in una sezione del Msi negli anni Settanta, spesso su spinte emozionali vaghe e disperate, significava tanto e nulla. Era pericoloso e rassicurante. Se avevi la fortuna di passare attraverso Rauti, diveniva formativo. Avevo conosciuto camerati più anziani, venivano da Lotta di Popolo. Il socialismo nazionale, il nazi-maoismo …  a mio avviso sono stato più fortunato di altri (non solo perché sono vivo), ma perché ho avuto, fin da subito, una guida per un approccio sostanzialmente culturale con quel mondo così complicato che era (ed è) la destra italiana. Ho capito da subito che il fascismo o è di sinistra o non è, che la scissione di Livorno trova il suo sbocco non banale nella repubblica Sociale, ma ho capito anche che lo stile è l’uomo, e che questo nasce solo da un nesso imprescindibile tra etica e estetica, e si realizza nel più intimo senso dell’onore. Immutabile, innegoziabile.

Valori che ti rendono impermeabile alle facili lusinghe della società (e della sua godibile spettacolarizzazione) e che ti permettono di portare te stesso ovunque - nelle bettole come nei salotti buoni - senza pericolo di alienazione. Gli anni galoppavano, gli amici andavano in galera per un nonnulla (spesso per reati che di politico non avevavo niente), qualcuno non c’è più.

Ho fatto quello che potevo e, a mio avviso, dovevo. Sono stato un giovane militante qualunque, ma avevo una lezione e una direzione ben impressa nella mente. Negli anni dell’università sono andato altrove, probabilmente per rimanere quello che ero (e che sono), chissà? Ho frequentato ambienti diversi, lavorato in luoghi ostili o più o meno ospitali. Poi non so bene cosa sia successo. Ho visto una generazione (o forse due) perdersi, un’altra crescere in un Paese diverso, formalmente rappacificato (o edulcorato?), ma non tanto migliore. Ho visto qualche vecchio amico e camerata entrare in parlamento, diventare ministro, qualcun altro in consigli di amministrazione importanti, ma Rauti - che ho incontrato di nuovo già anziano - mi sembrò avulso da questa nuova stagione scintillante (e forse di declino), probabilmente era già entrato, per dirla ancora con Junger, nel bosco. Nella purezza dei suoi pensieri. Sempre rivoluzionari, per sempre.

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