Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Zubin Mehta
Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta. A questo punto, il maestro è morto. Non c’è intenditore d’opera che quando si tratta di Turandot, non vada col pensiero alle parole con cui Arturo Toscanini interruppe l’opera alla scena della morte di Liù nel terzo atto, in occasione della prima – postuma – alla Scala il 25 aprile 1926. Il finale composto da Franco Alfano, che aveva lavorato su quei 23 fogli di appunti che Puccini aveva portato con sé in quell’ultimo e fatale viaggio a Bruxelles, nel novembre 1924, fu eseguito solo la sera seguente.
Sono battute funebri, quelle che seguono il tragico suicidio di Liù, la giovane schiava suicida per amore del Principe Calaf, il cui nome è ignoto a tutti ma non a lei né al vecchio Timur; e in virtù di un sorriso lontano che Calaf, nei giorni del suo fulgore, le aveva rivolto, accetta di sacrificarsi perché egli vinca ancora; per non vederlo più. Ma le battute di morte suonarono anche per Giacomo Puccini, stroncato da un collasso in seguito a una operazione che avrebbe dovuto prolungargli – forse di poco – la vita già condannata da un tumore alla gola.
Dunque, l’ultimo, grande enigma di Turandot è il finale:” Gli enigmi sono tre; la morte è una “ dichiara algida la principessa nell’accettare la sfida del Principe Ignoto (Calaf); e sembra aver avuto ragione. Puccini, implacabile cantore delle tragiche nozze eros/Thanatos, (amore e morte) non riuscirebbe a concepire l’amore come forza che dà la vita, che sgela e trionfa; e la principessa di ghiaccio non poteva certo essere “sgelata” dalla fiammella del pur onesto Alfano. “Come nel Parsifal col cambiamento di scena al terzo atto, trovarsi nel San Graal cinese? Tutto fiori rosa e tutto spirante amore? “ Così Puccini aveva scritto, già nel 1921 con una punta di perplessità, a Giuseppe Adami, autore insieme a Renato Simoni del libretto dell’opera, testo dalla genealogia alquanto complessa.
Secondo molti critici, Puccini non sarebbe stato in grado di superare l’ostacolo che gli veniva da una tematica estranea alle più autentiche ragioni della sua drammaturgia; non per nulla, il finale positivo della Fanciulla del West, con il trionfo dell’amore quale forza redentrice, aveva ricevuto non poche critiche. C’è chi addirittura ha dichiarato che Puccini non avrebbe potuto finire l’opera (perlomeno, con un finale all’altezza della situazione) in ogni caso, dando implicitamente all’ultima, tragica malattia del maestro un valore quasi … di provvida sventura;come Claudio Sartori, che giunse a definire Turandot l’opera che uccise Puccini.
Pessimo gusto a parte di tali affermazioni, il quarto enigma di Turandot rimane insolubile; ma ridurre il significato dell’opera al finale mancato sarebbe veramente quanto di peggio si potrebbe fare. “ Penso ora per ora, minuto per minuto, a Turandot e tutta la musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più. Sarà buon segno? Io credo di sì” – scriveva Puccini a metà nel 1924 ; e il novembre di quello stesso anno, alla vigilia della partenza per Bruxelles: Turandot? Non averla finita mi addolora. Guarirò? Potrò finirla in tempo?
Un capolavoro tra innovazione e tradizione.
Al di là dell’iperbole, la dichiarazione di Puccini sulla qualità della musica di Turandot appare senz’altro fondata. “ Turandot è l’opera di Puccini più complessa e avanzata , tutt’altro che facile (….) ci si chiede come mai sia diventata popolare “ (Alfredo Mandelli); [1] e secondo Michele Giraldi, “Un dato però è certo: Turandot è il vertice dell’arte pucciniana per quanto riguarda la tecnica orchestrale, la vocalità, il trattamento del ritmo, l’armonia, e in particolare per la compattezza con cui questi parametri vengono fusi determinando un organismo inscindibile.” [2] In Turandot, infatti, troviamo un’orchestra molto complessa in buca ma anche una seconda , interna, di ottoni, saxofono, percussioni e organo; e l’orchestra, esattamente con il coro ora crudele e beffardo, ora inneggiante, ora partecipe quasi con tenerezza alle sventure dei personaggi (basti pensare all’improvviso passaggio, nel primo atto, dalla gioia crudele per l’esecuzione imminente del principe di Persia al dolore e alla compassione quando questi compare in scena (Perché tarda la luna / O giovinetto!) ) diventa boitianamente un personaggio tra gli altri, in quanto determina l’atmosfera momento per momento,inventando effetti coloristici che sono preziosi e violenti al tempo stesso:
“Ma la vicenda si era avviata coi colori rossastri del tramonto – ritmo tesissimo, movimento continuo, percussioni scatenate – che digradano verso il blu più intenso nel momento in cui il popolo attende fremente la luna piena per vedere decapitato l’ultimo sfortunato pretendente della loro sovrana. Istanti spasmodici immersi in una stasi armonica quasi totale (…).
Quando Turandot appare muta sul loggiato un raggio la illumina e collega la sua bellezza incorporea al turbamento che coglie Calaf. Poco ci vorrà all’innamorato per precipitarsi sul gigantesco gong che campeggia sullo sfondo: non è solo uno strumento musicale, ma anche aggeggio indispensabile alla finzione, poiché percuoterlo significa iniziare a giocare con la morte. “
E’ un passaggio della brillante analisi di Giraldi, il quale nota tra l’altro come un ingrediente “tradizionale” quale l’unità aristotelica di tempo (l’azione che deve svolgersi entro un “giro di sole”) diventi il pretesto per tracciare un percorso nel quale proprio lo scorrere inesorabile delle ore, nel corso dei tre atti, diventa il vero protagonista del dramma, venendo così ad assumere un valore simbolico.[3] Se infatti la scena si apre con l’attesa angosciosa della luna, le varie fasi della giornata (o meglio, della nottata) si avvicendano in un simbolico susseguirsi di colori, fino al bianco dell’alba che avrebbe dovuto vedere la vittoria di Calaf ( all’alba vincerò) e i primi raggi di sole illuminare il “disgelo” di Turandot.
Un organico strumentale raffinato e complessa, con strumenti e percussioni inconsuete e orientaleggianti : tam tam, gong cinesi con nove altezze sonore, xilofono, celesta etc. evoca i colori di una Cina fiabesca e crudele, fuori dal tempo ma senz’altro più un incubo novecentesco che un sogno esotico di stampo romantico; e dove accanto a una articolazione tematica e sinfonica emerge anche un’ossatura costituita dal succedersi dei tradizionali “pezzi chiusi”, tipici del melodramma italiano. Ma non si tratta affatto di un limite, bensì di una formula innovativa che riprendeva del resto le indicazioni dell’ultimo Verdi, via Boito e che avrebbe potuto avere un grande sviluppo.
La fabula; da Gozzi a Puccini.
Turandot è tratta da una “fiaba teatrale” in cinque atti rappresentata a Venezia nel 1762, opera del rivale di Goldoni Carlo Gozzi (1720-1806) tratta da L’histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine presente in un’edizione francese settecentesca del ciclo di fiabe persiane Le mille e un giorno. Si tratta di un testo abbastanza complesso, in 5 atti, che rientrava nel gusto dell’esotico comune a certo Illuminismo e al Romanticismo; non per nulla aveva già interessato Carl Maria von Weber (nel 1809) e soprattutto Ferruccio Busoni che nel 1904 scrisse una suite in otto movimenti e nel 1917 un’opera in due atti molto ammirata da Puccini, che decise di accostarsi a sua volta al testo nel 1920 su proposta di Renato Simoni. I librettisti lavorarono peraltro su una versione del testo scritta da Schiller e ritradotta in italiano da Andrea Maffei nel 1867; un iter davvero complicato. La trama, che nel libretto è molto semplificata rispetto all’originale, è assai nota: in una Cina del tempo della favole Turandot ha estorto al padre, l’imperatore Altoum, la promessa di concederla in sposa solo a chi “di sangue regio/sciolga i tre enigmi ch’ella proporrà … ma chi affronta il cimento e vinto resta, porga alla scure la superba testa” E la testa ce la hanno rimessa già in dodici. Proprio in occasione dell’esecuzione dell’ultimo (il principe di Persia) giunge a Pechino il principe esule Calaf, che nel mezzo della folla ritrova il vecchio padre cieco, il re spodestato Timur , guidato dalla schiava Liù che segretamente ama Calaf. Ma la gioia dura poco; Calaf vede Turandot, se ne innamora e decide di tentare la prova. Condotto in pompa magna da Altoum, il principe sfida l’Algida Turandot e scioglie i tre indovinelli; e poiché lei, disperata, non vuole saperne di sposarlo, le propone di scoprire il suo nome: se ci riuscirà, sarà il tredicesimo decapitato e lei sarà libera. Calaf conta sul fatto di essere sconosciuto a tutti, ma le spie scoprono Liù e Timur e si apprestano a interrogarli; ma la giovane, coraggiosa schiava dichiara di conoscere lei sola il nome e si suicida per evitare di rivelarlo tra i tormenti. Calaf è sdegnato ma bacia la principessa, che a comincia a cedere alla forza dell’amore. All’alba la resa finale davanti alla corte al completo.
L’edizione di Firenze 2012
Turandot sarebbe dovuta andare in scena nello storico, splendido allestimento della “città proibita” con la regia di Zhang Yimou. Purtroppo l’incidente al soffitto del vecchio teatro comunale e la non completa agibilità del Nuovo Teatro dell’Opera fa sì che l’opera verrà rappresentata in quest’ultimo, ma solo in forma semiscenica; il che significa (o dovrebbe significare) con i costumi ma senza le scenografie. Si spera che la grande bacchetta di Zubin Mehta aiuti a dimenticare questa non lieve menomazione dello spettacolo, che parte stasera con repliche il 28 e 29 novembre (ore 20,30) 2 (ore 15,30) 4 e 5 dicembre (ore 20,30). Il ruolo di Calaf (tenore) è affidato a Jorge de León e a Rubens Pelizzari (28 .11;4.12); in quello di Turandot (soprano) si alterneranno Jennifer Wilson e Elena Pankratova (27.11, 4.12); Ekaterina Scherbaschenko e Serena Daolio (27.11, 4.12) interpreteranno il ruolo di Liù (soprano). Si tratta comunque di un grande appuntamento molto atteso dal pubblico e si spera una nuova occasione per una grande vittoria di Puccini e di Mehta; quindi di Firenze e del suo grande teatro. Ed è sicuramente da segnalare un bellissimo accordo tra l’Eni e il Maggio, che inaugura una formula di partnership per il mondo del teatro già sperimentata all’estero: non solo l’azienda ha potuto acquistare, e donare al pubblico della Città di Firenze molti biglietti per il concerto di Zubin Mehta, al Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze, venerdì 30 Novembre 2012 (ore 20.30) e offrire ai ragazzi delle scuole fiorentine l’opportunità di assistere alla prova generale del mattino (ore 10.30); ma grazie sempre al contributo Eni nella recita del 5 dicembre (in cui l’azienda è partner unico) 350 studenti dell’università di Firenze potranno entrare gratis. Un gran bella …. botta d’energia per la diffusione della cultura!
[1]Alberto CANTU’, L’universo di Puccini da Le Villi a Turandot, Varese, Zecchini editore, 2008, p. 198.
[2]Michele GIRALDI, Turandot, l’ultimo esperimento, http://www-5.unipv.it/girardi/tura.PDF, p. 2
[3] Ibidem p. 3
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