Taci Imbecille

Francesco Merlo, per «La Repubblica» del 1 dicembre 2012

La polizia in redazione sa di regime odioso ma l'arresto di Alessandro Sallusti, la sua evasione e di nuovo il suo arresto, sia pure ai domiciliari, sono una commedia atroce perché la vittima, che senza tentennamenti noi non vogliamo in prigione, è stato il gendarme del peggiore giornalismo illiberale italiano, uno dei cani da guardia di quel Silvio Berlusconi che per venti anni ha seminato la peste della diffamazione, ben oltre l'articolo scritto ma non firmato da Renato Farina che ha infangato il giudice Cocilovo e che ancora oggi Sallusti rivendica come un'opinione forte e non come un'infamia.
E Sallusti, nel difendersi, non usa il linguaggio del detenuto che noi vorremmo liberare ma del carceriere della libertà: non ha mai chiesto scusa a Cocilovo e, nella conferenza stampa, ha mitragliato le parole "cazzo" e "palle" al posto dei ragionamenti.
E poi insulti e accuse di viltà ai cronisti, sputi in faccia a chi ha mancato di difenderlo, soprattutto ai suoi vecchi complici, ai senatori del Pdl che trincerandosi nel voto segreto gli hanno stretto ai polsi quegli schiavettoni che la magistratura gli ha invece risparmiato. E ogni volta che in questi giorni e in queste ore Sallusti ha inscenato l'epica antibuonista, la prova di carattere di chi non vuole piacere a tutti i costi, al punto da farsi gettare in gattabuia con la sua bella faccia scavata, è stato impossibile non sospettare, con dolore e con pena sinceri, il campiere che guadagna gradi e stellette dietro il Silvio Pellico allo Spielberg, dietro l'evaso che ieri, portato in aula, ha finalmente promesso al suo giudice di rispettare la legge, dietro il "delinquente abituale" che il 6 dicembre sarà processato per direttissima per evasione, e speriamo che lo assolvano visto che, cavalcando i suoi paradossi, è il primo evaso della storia che non voleva evadere dal carcere ma voleva evadere per andare in carcere ("manca l'elemento soggettivo" si dice nel linguaggio penale).
Insomma è davvero difficile non intravedere dietro tutta questa sofferenza, vera e falsa al tempo stesso, l'ascesi del galeotto riluttante nella gerarchia dei pezzi da novanta. Più si avvicina alla cella più si inoltra nel cerchio magico. Dell'Utri raccontò che quando nel 1993 Aldo Brancher fu chiuso in carcere, Berlusconi e Confalonieri giravano intorno a San Vittore con la macchina per fargli sentire la loro vicinanza, come in un rito esoterico. E Berlusconi non ha finora detto una sola parola su Sallusti «perché temo di danneggiarlo» ha confidato alla Santanché.
Nel nostro immaginario abbiamo l'esempio di Guareschi e quello di Jannuzzi, ma anche il garbo e la tenace dignità di chi come Tortora pativa un'ingiustizia. Jannuzzi reagì con l'ironia e Guareschi con il silenzio della matita con la quale disegnò se stesso prima nel campo di prigionia tedesco e poi nel carcere della Repubblica italiana. Sallusti reagisce invece con la schizofrenia di chi subisce il contrappasso, di chi finisce in galera con la satanica regia di se stesso. Sallusti in prigione è il delitto perfetto del giornalismo asservito. È il frutto malato di quel Berlusconi che addomesticava i giornalisti o li faceva tacere e dunque li imprigionava in una gabbia peggiore della galera.
È vero che la cattura di Sallusti ci riguarda tutti, che è una pesantissima minaccia per la nostra professione perché adesso corriamo il rischio di avere, anche noi come lui, i poliziotti dietro la porta. Ed è vero che il Giornale che Sallusti dirige è ricco di professionisti appassionati, che nacque per un'esigenza di libertà ed è ancora oggi scuola di cronaca, di critica letteraria, di sport ... Ma il paradosso è che ci ritroviamo ad indignarci non per l'onore di una vittima ma per quello di un carnefice, e del suo stesso giornale innanzitutto.
Sallusti è stato infatti l'agente di custodia, l'uomo di mano del più potente e ricco leader politico della storia dell'Italia repubblicana che usava i giornali e le televisioni, quelle di cui è ancora proprietario e quelle pubbliche che controllava politicamente, per truccare l'informazione, falsificare persino le immagini e le foto. Berlusconi per venti anni ha impaginato ogni mattina l'Italia e ha trasformato la sua biografia in un romanzo nazionalpopolare che i rotocalchi affidati ai suoi tanti Sallusti ogni giorno pubblicavano e ripubblicavano, lustravano una vita illustrata che non aveva mai vissuto, trasformavano i suoi disturbi e le sue ossessioni in capacità seduttiva.
Berlusconi si è circondato di lingue servili e di scrittori su dettatura, ha cacciato via dalla Rai Biagi e Santoro, ha cercato di mettere a tacere persino Montanelli, ha corrotto e comprato cronisti e magistrati, ha sporcato forse per sempre il blasone della Mondadori, ha messo le mani sui grandi giornali di tradizione, è riuscito a cacciare prima Ferruccio De Bortoli e poi Paolo Mieli dalla direzione del Corriere della Sera.
E i suoi talenti migliori come Sallusti si sono esercitati nella diffamazione, veleni e veline dal caso Boffo alla costruzione della macchina del fango utilizzata di volta in volta per tutti i nemici del padrone, da Fini sino a Crocetta. Alla fine questo giornalismo ha reso sospetta la stessa professione, le ha tolto prestigio e ha per esempio trasformato un campione dell'informazione anglosassone, un eroe della Cnn come Alessio Vinci in un propagandista impacciato persino nell'intervistare Nicole Minetti, e che adesso è stato pure licenziato (e gli facciamo tanti auguri).
Questa malainformazione ha persino contagiato un certo giornalismo antiberlusconiano che è diventato a sua volta odioso nella polemica personale, nell'insulto ferocemente goliardico e gratuito, spaventoso al punto da fare oggi il tifo per la galera a Sallusti, con l'augurio di gettare via la chiave...
La regia diabolicamente perfetta di questo arresto è dunque firmata dallo spirito del tempo: Sallusti agli arresti sta a Berlusconi come Napoleone a cavallo stava ad Hegel. A furia di sporcare e di ammanettare la libertà degli altri Sallusti ha finito con l'ammanettare se stesso, come Colombo che a furia di cercare l'Est trovò l'Ovest.
Certo, la grazia del capo dello Stato non si può pretendere perché la gratuità è nella sua natura. Ma sarebbe sicuramente una grazia al giornalismo perché disinnescherebbe la protervia intossicata di Sallusti e contribuirebbe a restituire alla diffamazione la sua sostanza di incidente tra la verità e la malafede. Non si può infatti tollerare che la diffamazione diventi eroismo grazie all'enormità della galera, che è sproporzionata quale che sia il reato commesso dal giornalista. Ecco perché la grazia, oltre che riconciliare il diritto con la dignità e con la pietà, restituirebbe il giornalismo alla civiltà della misura.

Come chiosa Dagospia: non è un Merlo è una jena!


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