Alexandra David-Neel

Fu una memorabile “esploratrice”, una voyageuse

L’ultima intervista della sua vita allo scoccare del centesimo compleanno

di Angelo Iacovella

Fu una memorabile “esploratrice”, una voyageuse

Alexandra David-Neel


L’ultima intervista della sua vita, Alexandra David-Neel la rilasciò allo scoccare del centesimo compleanno. In quella occasione, malgrado la sedia a rotelle sulla quale era costretta e la quasi totale cecità, parlò a lungo e con la solita grinta, un po’ mascolina, delle sue peripezie e dei suoi viaggi leggendari, che l’avevano condotta, en mendiant, dalla Cina all’India, passando per il Tibet, e che ne avevano fatto un mito vivente. Alla domanda su come fosse riuscita, una dame di ottimo casato come lei, destinata a una comoda carriera da soprano, a scarpinare per la bellezza di 3.000 chilometri, tra rischi e pericoli inimmaginabili, fino a raggiungere le mura “proibite” di Lhasa, prima donna occidentale nella storia, ebbene, a quella domanda Alexandra rispose, tra il saggio e il beffardo, con queste testuali parole: “Il suffit de mettre un pied devant l’autre…”.

Nacque a Saint-Mandé (nei pressi di Parigi) nel 1868, e si spense – fanno oggi esattamente quarantadue anni dalla morte – l’8 settembre 1969. Ma chi fu in realtà Louise Eugenie Alexandrine Marie David? Sicuramente una grande «scrittrice», a giudicare perlomeno dalla fama – meritata – dei suoi libri, primo fra tutti il Viaggio di una parigina a Lhasa (1926), e dal suo stile, fertile e brioso. Al tempo stesso, una delle poche – forse l’unica – vera “orientalista” della sua epoca.

Aveva studiato il buddhismo e conosceva a fondo il sanscrito, ed è a lei che si devono testi fondamentali sull’argomento, quali il celebre e più volte tradotto Mystiques et magiciens du Thibet (1929); un’opera indispensabile a chiunque voglia accostarsi allo studio dell’esoterismo tibetano, le cui più riposte (e tenebrose) pratiche dottrine l’autrice portò alla luce, come ad esempio nel brano – un “classico” involontario della letteratura macabra – in cui descrisse la cerimonia “del morto che danza”: Il celebrante del rito si chiude, solo con un cadavere, in una stanza al buio. Deve rianimare il morto stendendosi su questo, posando la sua bocca sulla bocca del cadavere e ripetendo continuamente una stessa formula magica senza farsi distrarre da alcun pensiero. Dopo qualche istante, il cadavere comincia a muoversi. Tenta di alzarsi e fuggire. Lo stregone deve allora tenerlo fermamente tra le sue braccia e rimanere incollato a lui. Il morto si agita più e più, si scuote cercando di alzarsi con lo stregone sempre attaccato a lui che non deve allontanare la bocca da quella del cadavere. Alla fine la lingua del cadavere sporge dalla bocca. È il momento critico. Con i suoi denti lo stregone deve prendere la lingua del morto e strappargliela. Immediatamente il cadavere ricade inerte e la sua lingua, accuratamente seccata e conservata dallo stregone, diviene potente arma magica”.

Fu, infine, una memorabile “esploratrice”, una voyageuse come mai prima se ne erano viste. All’età di 17 anni, senza avvertire né la madre, un’anziana bigotta di osservanza calvinista, né il padre, un coriaceo comunardo di origine scandinava, amico di Victor Hugo, un bel giorno si imbarcò per l’Inghilterra. Un gesto “romantico” che avrebbe bissato più tardi, allorché, diciannovenne, lasciò la sua casa di Bruxelles, per attraversare a piedi il San Gottardo, alla volta del Lago Maggiore, portandosi dietro, nella bisaccia, un’edizione rilegata delle Massime di Epitteto. Lo aveva fatto, certo, per spirito d’avventura, ma – anche e soprattutto – per sottrarsi a un clima familiare troppo angusto per i suoi gusti, che la soffocava. Da qui l’amore per la musica e il bel canto, e la decisione di iscriversi, dopo aver fatto ritorno in Francia, ai corsi del prestigioso conservatorio della capitale. La sua bella voce e il suo naturale talento per le scene non dovevano restare a lungo inosservati, tant’è che, nel 1895, una prima e allettante offerta di ingaggio le arrivò dal Teatro dell’Opera di Hanoi.

Alexandra si trasferisce in Indocina, dove ben presto il successo le arride, riportandola sui palcoscenici di mezza Europa. Si avvicina – nel frattempo – alla “Società Teosofica” di Madame Blavatsky, di cui frequenta i circoli e dalla quale mutua l’interesse per l’occulto e per le religioni e le filosofie dell’Oriente; interesse che, con il passare del tempo, si fa sempre più spiccato. A Parigi, nelle austere sale del Museo Guimet, al cospetto di un Buddha gigante, l’illuminazione. Alexandra intuisce che è quella la sua via, e che dovrà percorrerla tutta, fino in fondo, nonostante un marito, Philippe, conosciuto a Tunisi, con il quale conduce un tranquillo, forse troppo tranquillo, ménage coniugale.

Il giorno fatidico e tanto atteso arriva il 9 agosto del 1911. Il richiamo dell’Asia è troppo forte. Inutile opporvisi. Alexandra ha ormai deciso. Si lascerà tutto alle spalle, gli spettacoli, il pianoforte, gli studi libreschi, gli agi borghesi, per inseguire il suo scopo. Il piroscafo è là, farà rotta verso Ceylon. Non c’è altro da fare che salirvi a bordo, e lasciare che il karma segua il suo corso.

Un cammino lungo mille miglia, recita un proverbio cinese, comincia con un passo. E di “passi”, Alexandra David-Neel ne avrebbe fatti eccome! Uno dopo l’altro, si avvicina alla meta, ma troppo prolisso sarebbe seguirla da vicino nelle sue irrequiete “scorribande” attraverso mari e monti, tra città formicolanti e miseri villaggi, tra giungle e pagode, tra fiumi e deserti. Meglio, con l’occasione, riprenderne in mano le opere e farsele raccontare dalla sua viva voce quelle stupefacenti “peregrinazioni”, degne di un Marco Polo, di un Pietro Della Valle, di un Matteo Ricci. Pagine squisite che ci trasportano, come per incanto, dalle vette dell’Himalaya ai monasteri del Sikkim, dove, con l’emozione della neofita, Alexandra sperimenta le gioie dell’ascesi e della meditazione profonda (samadhi). In quel di Mando (sempre nel Sikkim), mentre corre il 1914, un ragazzo del luogo, che passa per la reincarnazione di un lama tibetano, si mette al suo servizio: si chiama Aphur Yongden e, da quel frangente, le farà da guida e da fedele servitore, le starà accanto nelle situazioni più insidiose, la aiuterà a districarsi nella traduzione di antichi e impolverati manoscritti.

Nell’ottobre del 1923, tutto è pronto per la sfida più difficile e apparentemente più insensata: arrivare, “senza un tenda, senza un bagaglio”, alle soglie dello Tsi Pothala, nel cuore segreto del “Paese delle Nevi”: “Finalmente, dopo quattro mesi (...) abbandonai Detchene una mattina all’alba per compiere la mia ultima tappa verso Lhasa. Il tempo era bello, freddo e secco, il cielo luminoso. Il sole che si alzava fece apparire davanti a noi, ancora lontano e tuttavia già maestoso e dominatore, il grande palazzo del pontefice lamaista. Questa volta è vittoria! – dissi a Yongden!”.

Il resto è prosa. Accademia. Premi, conferenze, articoli, riconoscimenti ufficiali e non. La notizia delle imprese di Alexandra David-Neel fa letteralmente il giro del mondo. Lei non se ne cura più di tanto, e continua imperterrita, fino allo stremo delle forze, a vergare saggi impeccabili intorno al prediletto buddhismo, di cui la convince l’idea dell’impermanenza dell’anima individuale. “Siamo come onde che vivono e rivivono”: questo, a suo dire, il succo degli insegnamenti del principe Siddharta.

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