Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Con il “rogo della Vecchia Befana” il 6 gennaio, simbolo della Madre Natura che muore per poi rinascere, è cominciato in alcune regioni del nord il Carnevale che quest’anno, nel rito romano, finirà alla mezzanotte del 12 febbraio - Martedì Grasso - vigilia del Mercoledì delle Ceneri, mentre in quello ambrosiano si concluderà alla mezzanotte del sabato successivo.
Ma la data ufficiale che darà il via alle celebrazioni carnascialesche è quella del 17 gennaio, festività di Sant’Antonio Abate, detto anche “il santo del maialino”.
In molti luoghi dell’Italia, già la vigilia della festa, si accendono in suo onore dei grandi falò, si benedicono gli animali domestici, si organizzano corse di cavalli e si mangiano piatti a base di maiale perché una volta, durante tutto il periodo, occorreva “mangiar di grasso”: una tradizione imposta dalla necessità di porre fine alle scorte di grassi animali prima delle astinenze quaresimali.
Una filastrocca del Molise dice infatti: “Carnevale, muse unte/ z’ha magnate le panunte...”, ossia “Carnevale, tieni il muso unto chi ha mangiato il panunto”, riferito al piatto tipico che si consuma per Sant’Antonio, chiamato “Trachiulella” e “panuntella”, cioè cotolette di maiale su pane casereccio unto di peperoncino o “diavolillo”.
D’altronde nel Medioevo il grasso Messer Carnevale era raffigurato con la testa di maiale, le dita a forma di salsicciotti e una collana fatta di salumi, prosciutti e lardo, in contrapposizione alla magra Donna Quaresima, grigia, scarna e con una aringa secca in una mano e un cavolo nell’altra.
Ma oltre ai cibi a base di maiale, durante il Carnevale era d’uso consumare dolci rigorosamente fritti nello strutto o nel burro. Molte sono tuttora le specialità regionali, che oggi, per la moderna dietologia, vengono cotte al forno o fritte con diversi tipi di grassi vegetali.
Frappe, sfrappole, bugie, cenci, lattughe, trecce, chiacchiere, galani, crostoli, e molte altri cibi dolci, diversi nel nome ma molto simili nella sostanza: un semplice impasto di farina, uova e burro tagliato in grosse listarelle che poi vengono fritte e quindi ricoperte con zucchero a velo o miele.
Ugualmente carnascialeschi - perché fanno parte della grande famiglia dei dolci fritti - sono le frittelle con diversi nomi regionali: zeppole, tippulas, bignole, farseu, fritole, castagnole romane. Per non parlare delle specialità più elaborate e a volte ripiene: frittelle di riso molisane, fritole triestine, nigelan e krapfen altoatesini, sfincitelle siciliane, tortelli romagnoli, bomboloni fiorentini, cicerchiata umbra, fregnacce di Acquapendente, zippulas sarde, panzarotti, ravioli dolci, frittelle di mele, di castagne o di zucca, zeppole napoletane, fritole veneziane... E chi più ne ha più ne metta perché è risaputo che “a Carnevale, il fritto non fa male”!
Comunque sia, e nonostante le tante celebrazioni carnascialesche - sfilate di carri, maschere, balli e grasse abboffate - che si susseguiranno fino al Mercoledì delle Ceneri, nell’attualità questi festeggiamenti sono come tanti altri, perché non esiste più una distinzione profonda fra giorni feriali e feste.
“Quaresime” o “carnevali” sono diventati oggi giorno quotidiani, privi di ogni rito; e la mancanza di ritualità è uno dei motivi dell’angoscia che colpisce soprattutto gli abitanti delle grandi città che vedono scorrere i giorni linearmente, eguali nell’alternanza monotona di tempo lavorativo e di vacanze: vacanze che sono spesso una fuga da cui si ritorna alla realtà quotidiana con angoscia. Non a caso la parola “vacanza”, sconosciuta fino al secolo scorso, quando si parlava invece di villeggiatura, deriva dal verbo latino “vacare”, che significa “essere libero da impegni”.
Ma torniamo al nostro re Carnevale che una volta, quando il tempo scorreva circolarmente, era per i contadini un periodo ciclico in cui si poteva prevedere il tempo futuro e si creavano dunque proverbi ricorrenti che perdurano tuttora. Si diceva: “Carnevale al sole, Pasqua al fuoco, Carnevale al fuoco, Pasqua al sole”, dove il fuoco indicava il caminetto e in senso traslato il brutto tempo. Una previsione che si basava sull’esperienza perché sappiamo bene che, se l’inverno è asciutto e sereno, probabilmente nel periodo pasquale pioverà a dirotto e viceversa.
Un altro proverbio invita a scambiarsi visite e inviti: “Carnevale in casa d’altri e Natale in casa tua”. Chi invece non nuotava in buone acque e non aveva né tempo né voglia di ridere bofonchiava: “In Carnevale il povero a zappare”. Ma vi era anche chi saggiamente non si lasciava amareggiare dalle ristrettezze ed esclamava: “Per Berlingaccio chi non ha ciccia ammazza il gattaccio”. Si tratta di un detto toscano in cui “Berlingaccio”, che deriva dal tedesco “bretling”, tavola, è sinonimo di Giovedì Grasso, ma anche per estensione di persona grassa, allegra, bene in carne.
Fino a qualche secolo fa, il periodo di Carnevale era tempo di follie ma anche di scherzi e beffe che si dovevano accettare di buon grado, come afferma il proverbio: “Di carnevale ogni scherzo vale”. D’altronde il Carnevale nasce dalla reinterpretazione cristiana di una festa di passaggio da un anno all’altro, che si ritrova in varie tradizioni orientali e occidentali: dai “Saturnalia” romani alle bacchiche “Antesterie” greche sino alle feste che precedevano l’equinozio primaverile in Babilonia, come ha documentato Alfredo Cattabiani nel suo “sempreverde “Calendario” (Mondadori).
Per capire dunque il vero significato del Carnevale, spiega Cattabiani, «conviene riflettere sulla struttura e sul simbolismo di una antichissima festa babilonese, poiché gli archetipi sono per definizione universali». D’altronde non possiamo sapere se quella sorta di “carnevale” orientale non abbia influenzato anche quello occidentale, tanto più che il nostro calendario registra influenze caldee, come ad esempio la settimana con i nomi dei suoi giorni.
«In Babilonia», scrive Alfredo Cattabiani, «si chiamava “Carro navale” una nave munita di ruote sulla quale il simulacro del dio Luna o del dio Sole veniva trasferito nelle settimane che precedevano l’equinozio di primavera, capodanno per quei popoli, fino al santuario babilonese. Quella processione simboleggiava il rinnovamento dell’anno mentre il viaggio verso il tempio alludeva al periodo di passaggio, di transizione e di caos festeggiato con una serie di comportamenti orgiastici, di finte battaglie, allegorie dello scontro fra forze positive e negative del cosmo, e di maschere che altro non erano se non le immagini dei morti, degli esseri degli inferi, che si mescolavano ai vivi figurando il rimescolamento cosmico di vita e morte, preludio alla nuova rifondazione temporale del manifestato».
Nell’antica Roma invece la figura medievale di Messer Carnevale si può accostare al cosiddetto “Re dei Saturnali”, una festa dai toni carnascialeschi che si svolgeva fra il 17 e il 21 di dicembre. Festa che la Chiesa, per non turbare l’atmosfera natalizia, cercò di espellere dalla loro collocazione tradizionale.
Ma non vi riuscì del tutto perché le «libertà di dicembre», spiega Cattabinai, si annidarono a lungo nel medioevo, fra i giorni successivi al Natale, con le usanze carnascialesche dei Santi Innocenti che si svolgevano persino all’interno delle chiese con l’episcopello e le feste dell’Asino e che sotto un aspetto più popolaresco perdura in Spagna dove il 28 dicembre e la giornata dedicata gli scherzi, come l’italico “pesce d’aprile”.
D’altra parte, e fino alle soglie dell’età moderna in alcune regioni il Carnevale cominciava addirittura a Santo Stefano, come testimonia un proverbio bergamasco e bresciano: “Dopo Natale è subito Carnevale”. D’altronde, oggi ancora un frammento dei Saturnali sopravvive nella notte orgiastica di San Silvestro. In altre regioni, come già detto, lo si inizia dopo l’Epifania, e in altre ancora dopo la Candelora del 2 febbraio. Ma la data che si è imposta a poco a poco quasi dappertutto è quella infatti del 17 di gennaio, festività di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici.
Quanto all’origine e significato della parola “Carnevale” ci sono tante e contrastanti ipotesi. Secondo l’interpretazione più corrente deriverebbe dal latino medievale “Carni levamen”, che significava “sollievo alla carne” e dunque libertà temporanea concessa agli istinti più elementari. Vi è anche chi avanza un’altra ipotesi, che derivi da “Carnes levare”, cioè “togliere le carni”; o da “Carni vale!”, ossia “carne addio!”, nel senso che una volta in questo periodo, prima dell’arrivo della primavera, si esaurivano in orge gastronomiche le ultime scorte di carni, grassi animali e salumi.
Forse la prima ipotesi fra quelle elencate sia la più esauriente poiché, nell’immaginario medievale cristiano, era proprio la “carnalità”, in tutte le sue sfaccettature, a trionfare prima della Quaresima, il periodo di purificazione e penitenza per la preparazione della Pasqua.
In ogni modo, aldilà della sua origine e significato e nonostante abbia perduto la sua antica importanza e ritualità come momento di passaggio dall’inverno verso la primavera, ancora oggi ci sono in giro per l’Italia centinaia di feste carnascialesche, alcune bellissime, che hanno conservato in gran parte gli ancestrali e rituali simboli del Carnevale. Di alcune ne parleremo nelle prossime settimane.
Violetta Valéry ritorna nel suo tempo: una Traviata ottocentesca per il Maggio Musicale
Firenze: una Butterfly d'eccezione per il centenario pucciniano
Madama Butterfly tra Oriente e Occidente: Daniele Gatti legge il capolavoro di Puccini
Una favola che seduce e incanta: Cenerentola di Rossini trionfa al Maggio
Un lampo, un sogno, un gioco: Gioacchino Rossini, Manu Lalli e l'incanto di Cenerentola