Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Il mondo arabo e le sue vicissitudini ci riguardano da vicino, per usare l’espressione di James Monroe riferita all’America Latina, gran parte di esso fa parte del nostro giardino di casa. Per questo il convegno - che si tiene a Firenze il 21 e 22 gennaio dal titolo: Le radici delle trasformazioni del mondo arabo. Un confronto sulle interpretazioni - assume una forte valenza legata all’attualità non soltanto culturale ma anche geopolitica.
Leonardo Paggi docente di Storia contemporanea, è uno degli organizzatori del convegno fiorentino.
“L’ Associazione per la storia e le memorie della repubblica discuteva da tempo sul tema dei rapporti tra Italia e Libia( la nostra esperienza coloniale) – attacca Paggi - come parte integrante di un bilancio sui 150 anni di vita nazionale unitaria. Le insorgenze politiche che sono esplose a catena nell’insieme del mondo arabo hanno costretto ad allargare lo sguardo, ma anche a cercarne l’ origine in un passato più remoto. Di qui la collaborazione con il Dipartimento di storia della nostra Università e in particolare con il Prof Gabriele Turi, direttore della rivista “Passato e Presente”, che ospiterà alcuni dei contributi al convegno. Oggi tendiamo a considerare il fenomeno come la terza fase di un “risveglio” arabo che comincia durante la prima guerra mondiale e si ripresenta negli anni cinquanta con un più definito volto nazionale e anticoloniale.
Il convegno sarà ospitato nell’aula magna del Dipartimento di storia in via San Gallo 10 e si aprirà con una relazione di Massimo Campanini, docente di Storia dei paesi islamici all’Università di Trento, al quale chiediamo di fare una sorta di ricognizione riguardo ai fermenti del mondo arabo:
“ È difficile arguire quale potrà essere l’assetto futuro di paesi come l’Egitto o la Siria, ma anche come la Libia e la Tunisia. I processi sono in corso e potrebbero assumere una direzione imprevista. In ogni caso, in tutti i paesi coinvolti dalla primavera araba l’Islam sta svolgendo un ruolo centrale: sia là dove si è istituzionalizzato politicamente partecipando al governo, come in Tunisia e in Egitto, sia là dove sembra più marginale, ma legato a elementi tribali e di identità nazionale (come in Libia o in Yemen) oppure proteso a conquistare spazi sulle ceneri di regimi in crisi (come in Siria) – in ogni caso, l’Islam sta conquistando spazi di espressione che veicolano anche un sentimento profondo che sale dalle società.
L’Islam -prosegue Campanini - avrà ancora una sua forte voce in capitolo anche se, auspicabilmente, dovrà trovare un terreno comune di intesa con le forze laiche per trasformare, ad esempio, la società egiziana. Quello che sarà da vedere è se i Fratelli Musulmani sapranno costituire una forza egemonica, nel senso gramsciano del termine, e dirigere i processi evolutivi in senso politico ma anche ad un tempo culturale. I segnali sono contraddittori, ma lo spettro della democrazia, come si diceva più sopra, aleggia nell’orizzonte politico egiziano.
Il destino della Siria è ancora più complicato -sottolinea Campanini -. Una caduta di Assad potrebbe aprire la strada all’egemonia dei gruppi sunniti appoggiati dall’Arabia Saudita, ma questo contrasterebbe con il carattere composito del panorama religioso-sociale siriano e preoccuperebbe l’Iran nel quadro strategico del conflitto sunniti-sciiti nel Medio Oriente e nel Golfo.
- Professor Paggi è corretto parlare di “Primavera araba?” E quali sono le reali trasformazioni che ci sono state in alcuni di quei paesi a partire dal febbraio 2011?
A nostro parere l’espressione di “primavere arabe” induce ad una sottovalutazione della complessità del fenomeno. Porta ad assumere come unico metro di misura dei processi in corso la formazione di un sistema parlamentare di tipo europeo e ad interrogarsi in astratto sui rapporti tra islam e democrazia.
In realtà le radici delle insorgenze vanno ricercate anzitutto nella disproporzione che si è creata nel tempo tra le aspettative suscitate dallo stato postcoloniale e un modello di sviluppo incapace di assicurare una prospettiva di vita per i giovani e per le donne, ossia per i soggetti che dal febbraio del 2011 più stanno premendo in tutti questi paesi per un superamento dei regimi oligarchici.
Su questa contraddizione di base è venuta poi a pesare la crisi del 2007-8, che ha avuto effetti non dissimili da quelli che stiamo vivendo in Europa: l’ipertrofia del sistema finanziario ha ridotto drasticamente le possibilità di occupazione offerte dal settore manifatturiero, la speculazione sul petrolio e suoi prodotti agricoli di prima necessità ha creato scarsità e lievitazione dei prezzi nelle più elementari condizioni di vita. Una stabilizzazione democratica dei paesi arabi implica la formazione di una nuova classe dirigente che sappia quanto meno avviare la soluzione di questi problemi.
- A proposito di regimi oligarchici La Siria è in preda a una terribile guerra civile. Può darci un suo punto di vista?
Dopo la Libia torna in Siria il fenomeno della guerra civile, che ci dice quanto forte sia il condizionamento che, non solo l’economia internazionale, ma anche gli assetti geopolitici stanno esercitando sul futuro dei paesi arabi.
La drammatica storia del Libano – prosegue Leonardo Paggi - ci ha già insegnato come le tensioni politiche interne ad un paese si trasformano in scontro armato quando le posizioni in lotta fanno riferimento a contrapposti schieramenti internazionali. La fine della guerra fredda non ha trasformato il Mediterraneo in mare di pace.
Il nuovo attivismo Usa del 2001 e 2003 non è riuscito a creare stabilità. Anzi, ha lasciato ampio spazio politico a paesi nettamente antagonistici: dall’Iran alla Russia post - sovietica alla Cina, che sempre più si protende nell’area spinta dal suo crescente fabbisogno energetico. Il futuro della Siria è oggi tragicamente consegnato nelle mani di forze che trascendono completamente i suoi interessi nazionali. E questo provoca una pena immensa in chiunque abbia conosciuto la bellezza e la civiltà antica e complessa di quel paese.
Professor Campanini, quando si parla del rapporto tra l’Islam e la democrazia, non si compie una forzatura?
Il problema del rapporto dell’Islam in generale e non solo dell’Islam politico con la democrazia è uno dei più dibattuti dalla storiografia. Direi innanzi tutto che esso si fonda su alcuni malintesi. In primo luogo il fatto che sia possibile comparare un concetto religioso con un concetto politico: l’Islam è una religione; la democrazia un paradigma politico.
Nessuno si chiederebbe mai se il crisitanesimo o l’ebraismo siano compatibili con la democrazia. Se lo si fa con l’Islam è perché si sottintende una risposta negativa: l’Islam non è, per assioma, compatibile con la democrazia.
Naturalmente, la categoria di Islam politico è più specifica, ma già essa contiene un’avvertenza importante, perché sottintende che non tutto l’Islam è politico. Esiste una versione dell’Islam che è contaminata dalla politica per quanto avanza la pretesa di realizzare e costituire lo stato islamico; ma esiste anche una versione dell’Islam apolitico, una versione dell’Islam che, essendo religione, enfatizza esclusivamente gli aspetti spirituali e del sacro (o tecnicamente giuridici e normativi).
Di fatto, l’Islam politico è una categoria della contemporaneità, è emerso nel corso del Novecento per reazione prima al colonialismo e poi al secolarismo delle ideologie panarabe e socialiste; nella storia dell’Islam classico non si è data una identificazione di politica e religione, ché anzi le dimensioni del potere pubblico e dell’autorità religiosa sono state sempre parallele e non coincidenti. Nell’Islam (almeno in quello maggioritario sunnita) – assicura Massimo Campanini - non esiste Chiesa, per cui non esiste teocrazia: una dottrina delle due spade, come quella sviluppata nell’Occidente medioevale, non è mai stata teorizzata nell’Islam. Per cui, in conclusione, se il problema politico è un problema accessorio all’Islam in quanto religione, chiedersi se l’Islam è compatibile con la democrazia è un peccato di essenzialismo.
Intende dire che ci possono essere diverse forme di democrazia?
Sì. Un secondo punto importante da sottolineare, è che spesso si considera la democrazia come un valore astratto, universale, avulso dal tempo e dallo spazio. La democrazia è invece un concetto e una prassi politica ben contestualizzata nel tempo e nello spazio, per cui si fa bene a parlare di democrazia “occidentale”.
Esistono altre forme di democrazia, e non si vede perché, allora, non debba esistere una versione islamica della democrazia e in questa luce ci si avvicina al nucleo dell’argomentazione. Se si riduce la democrazia a procedura, le regole procedurali della democrazia, sempre nel senso occidentale del termine, sono state accettate anche dall’Islam politico, da Rashid Ridà a Qutb a Rashid Ghannushi. Se si guarda invece al carattere valoriale della democrazia, la questione può risultare parzialmente diversa.
Esistono nel pensiero islamico classico alcuni concetti pivotali che sono inquadrabili in un lessico e in un orizzonte teorico democratico di tipo occidentale: i concetti di consultazione (shura), di consenso (ijma’), di bene comune (maslaha) sono facilmente rapportabili a quelli di rappresentanza, elezione, diritto pubblico eccetera...
Ma l’Islam, in quanto tale, non può rinunciare all’idea che sia Dio e non il popolo la fonte del potere e che lo stato islamico debba fondarsi sull’idea della sovranità di Dio (hakimiyya). Da ciò discendono conseguenze che non possono essere dettagliate qui, ma che hanno a vedere con la fondazione soggettiva o oggettiva dell’etica, col rapporto tra l’individuo e la comunità (la parte e l’intero), col controverso problema dell’universalità dei diritti umani.
Insomma, la relazione tra democrazia occidentale e Islam politico è particolarmente dialettica. L’Islam politico può accettare le procedure della democrazia occidentale ma avrà da difendere la sua prospettiva valoriale. Un islamista moderato e filosofo come Hasan Hanafi ha detto che la democrazia è un mezzo non un fine: un mezzo per realizzare i valori di giustizia e di uguaglianza declinati all’islamica, ma non un valore universale in sé. Per questo il laboratorio politico rappresentato dall’emergere dei partiti islamici nelle rivolte arabe dovrebbe o potrebbe rappresentare un momento di elaborazione, sulla base del pensiero politico islamico classico, di una versione aggiornata e islamica della democrazia. Esistono poi versioni dell’Islam politico, come il takfirismo-jihadismo tipo al-Qa’ida o gruppi salafiti affini, che respingono l’idea stessa della democrazia in tutte le sue forme e qui parlare di compatibilità è addirittura pleonastico.
Le monarchie del Golfo, alleate dell’Occidente, appoggiano i movimenti islamisti più radicali e ostili al mondo occidentale. Come spiegare questa contraddizione?
Quella che si sta combattendo è una lotta egemonica per prendere la direzione dei movimenti islamisti - afferma Campanini -. L’Iran ha preteso di farlo ai tempi di Khomeini ma questo ha suscitato l’ostilità dell’Arabia Saudita, capofila del sunnismo conservatore.
Strategicamente, Arabia Saudita e monarchie del Golfo hanno bisogno dell’appoggio occidentale per rafforzarsi contro l’Iran, ma contemporaneamente mirano a guidare le correnti di islamismo politico all’interno dei paesi arabi, per diffondere l’ideologia salafita-wahhabita di cui sono portatori.
È un gioco pericoloso potenziale fonte di contraddizioni nelle scelte e di instabilità. Del resto, l’Arabia Saudita, per esempio, non è favorevole ai Fratelli Musulmani in Tunisia e in Egitto, perché i Fratelli Musulmani, nello spettro estremamente variegato dell’islamismo politico, non sono riducibili e assimilabili all’orizzonte saudita, nemmeno dal punto di vista teologico. Un Egitto forte a guida dei Fratelli Musulmani potrebbe essere moderatamente filo-occidentale, moderatamente anti-israeliano e comunque alternativo al sogno egemonico saudita.
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