Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Rachida 35 anni marocchina, voleva convertirsi e lasciare il marito
È stata uccisa dal marito perché voleva lasciarlo, perché non credeva più nell’Islam, perché si era avvicinata al cattolicesimo, perché era una donna. Rachida Radi aveva 35 anni il suo assassino 39, due figlie piccole, 4 e 11 anni che forse la madre con la sua morte ha salvato da un simile destino.
Sì, perché quelle due bambine, quando diventeranno donne, sapranno che un uomo – nascondendosi dietro il paravento della fede che gli consente di considerare la moglie sua proprietà e se anche non glielo concede non ne combatte il tentativo– ha ucciso la loro madre perché era l’unico modo che conosceva di lasciarle la libertà che ella desiderava; e anche se quell’uomo è loro padre, si terranno alla larga.
Troppo spesso le donne sono vittime della violenza domestica, troppo spesso sono vittime di una malintesa interpretazione della legge religiosa, troppo spesso sono vittime del senso del possesso che gli uomini si ritengono in diritto di esercitare in qualunque forma.
Le guerre di religione non mi piacciono, non mi piace considerare mostruosa una fede antica dalla quale è discesa tanta cultura che poi è passata a noi, non mi piace guardare alla violenza sulle donne attribuendole una sola origine (quanti delitti anche nella nostra civiltà hanno mietuto vittime femminili!).
C’è però nel mondo islamico qualcosa che come donna mi inquieta, anzi mi terrorizza proprio: la possibilità di interpretare la legge coranica in forme di barbarie inaccettabili.
Quando sento parlare di lapidazioni di adultere (o supposte tali), di frustate per comportamento ritenuto immorale e simili punizioni che spesso vengono comminate dopo un processo nella quale la difesa dell’imputata combatte con armi di cartone contro i carri armati del sistema, ripenso alle mie brevi e certo non significative frequentazioni del mondo islamico, in Siria o in Tunisia e in Italia.
Ripenso al disagio provato portando i capelli lunghi sciolti per le strade di Damasco, ma anche di Tunisi; per carità nessuno mi ha mai detto niente, ma talvolta certe occhiate, certi sguardi valgono più di una parola.
Ripenso alla proibizione di entrare in alcuni luoghi sacri, off limits per le donne considerate impure, e già questo non è rassicurante: se una religione ti considera impura in quanto appartenente al genere femminile può accadere qualunque cosa.
Ma penso, molto più semplicemente, che anche a casa mia, in Italia, i miei contatti con un osservante dell’Islam non sono, liberi, sciolti, naturali. Nella migliore delle ipotesi, se egli è persona corretta ed educata, so che sta facendo un certo sforzo per darmi la mano (sono donna cioè impura) e per rivolgersi a me senza farmi pesare la differenza; ovviamente lo apprezzo, ma mi inquieta.
Sempre seguendo il filo dei miei pensieri lascio l’Islam e mi ritrovo con i miei colleghi italiani, professori o giornalisti; certo, con la maggior parte di loro il rapporto segue la gerarchia della professionalità e non quella del genere. Eppure c’è una piccola parte che ancora considera una donna intellettualmente meno dotata, meno adatta ad assoggettarsi alla disciplina del sapere, meno portata a gustare le conversazioni “alte”.
Pur sapendo che insegno all’università, scrivo libri, ecc. mi è capitato di sentirmi dire alla fine di una serata dove gli uomini parlavano di “cose alte”: «scusaci, ti sarai annoiata a sentirci parlare delle “nostre cose”». Già le “loro cose”, perché la cultura è roba da uomini.
E allora? Allora penso che sono fortunata perché la mia religione non contempla neppure lontanamente la possibilità di equivoco su come trattare una donna.
Sono fortunata perché vivo in un paese dove la parità fra i generi è un dato acquisito e intoccabile.
Però anche se sono fortunata e forte di tanti diritti, nell’aD 2011 nascere donna è ancora in parte una fregatura.
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